Le lesioni muscolari della coscia sono tra i traumi più comuni in medicina dello sport (dal 10% al 30% di tutti gli infortuni sportivi).
Le lesioni muscolari della coscia possono insorgere o a causa di un colpo ricevuto (lesione da trauma diretto o contusioni) o a causa di un movimento errato (lesione da trauma indiretto).
Le contusioni sono facilissime da diagnosticare, perché è in grado di riferire immediatamente il momento esatto in cui ha sentito il dolore, perché derivato da un contrasto con l’avversario o con un ostacolo.
In questi casi, a seconda di quanto il dolore muscolare limita il movimento, la contusione viene definita di grado lieve, moderato o severo.
In questi casi prima si inizia il percorso terapeutico, più veloce sarà la remissione dal danno.
Più complessa è la classificazione e la diagnosi dei traumi indiretti.
Se il dolore insorge accompagnato da un aumento diffuso del tono muscolare, solitamente al termine dell’attività sportiva, non è riferibile a un preciso momento di gioco, non è ben localizzato e il paziente lo indica a mano aperta, su tutto il muscolo, siamo di fronte a una contrattura muscolare.
Se al contrario il dolore è ben individuabile alla palpazione, insorge progressivamente durante l’attività sportiva, permette di continuare a giocare anche se con fatica, allora siamo di fronte a uno stiramento, caratterizzato da assenza di lesione anatomica macroscopica. Anche in questo caso prima si comincia il trattamento, prima si guarisce.
Le lesioni o strappi muscolari (di primo, secondo e terzo grado) necessitano invece di tempi di recupero più lunghi. In questi casi è sempre presente una lesione anatomica, di gravità variabile. Tale gravità è direttamente proporzionale alla quantità di tessuto interessato, al versamento ematico e al muscolo infortunato.
È difficile non individuare subito una lesione muscolare, perché l’atleta sente un dolore improvviso, acuto, con un specifico riferimento a un gesto tecnico; l’atleta addirittura può indicare con precisione il punto della lesione.
L’impotenza funzionale è tanto più precoce quanto grave è la lesione.
La diagnosi di una lesione muscolare è essenzialmente clinica ma viene coadiuvata da un esame ecografico effettuato preferibilmente a 24/48 ore dal trauma; l’ecografia viene ripetuta periodicamente durante la riabilitazione per monitorare la guarigione.
Il trattamento deve tener conto del grado, della sede e del tipo di paziente.
Le lesioni muscolari della coscia viene spesso più “bistrattata” che trattata. Proprio per questo abbiamo definito dei protocolli che tengono nella giusta considerazione il tipo di lesione, la sua sede e il tipo di paziente. Il nostro protocollo riabilitativo prevede un monitoraggio costante sia clinico che ecografico, proprio perché il destino delle lesioni muscolari dipende non soltanto dal grado e dalla sede della lesione, ma anche dagli errori di trattamento.
Riabilitazione per lesioni muscolari della coscia
Nel trattamento di lesioni muscolari della coscia è fondamentale l’anamnesi non solo per inquadrare l’infortunio ma anche per capire se vi sono stati altri episodi oltre al primo (recidive) o se si sono già instaurate recidive.
La diagnosi esatta dopo aver effettuato l’ecografia (contrattura, stiramento, strappo di 1°, 2° o 3° grado) orienterà la prognosi e l’iter terapeutico. Sarà inoltre importante valutare fattori predisponenti (ipoestensibilità a livello di altri gruppi muscolari, squilibri, blocchi vertebrali, sovraccarichi funzionali), positività ai test chinesiologici per patologie malocclusali.
In questa sede ci occupiamo del trattamento dello strappo del bicipite femorale, evenienza abbastanza frequente negli sportivi.
Durante la fase acuta nei primi momenti dopo l’evento traumatico è opportuno arrestare l’emorragia attraverso fasciature compressive e ghiaccio; successivamente dopo l’indagine ecografica e la diagnosi si può iniziare il trattamento riabilitativo controllando il dolore con terapie fisiche come laser, tens endorfinica e successivamente ultrasuono, e recuperare l’articolarità (negativizzare lo stretching) attraverso esercizi di allungamento e distensione.
È utile iniziare fin da subito l’attività aerobica consentita senza dolore e progressivamente aumentare l’intensità e la varietà dello stimolo.
Quando lo stretching è negativo e non c’è dolorabilità alla palpazione si può iniziare il recupero muscolare del distretto interessato dapprima in concentrica ma fondamentalmente in eccentrica per elasticizzare la cicatrice e migliorare l’estensibilità muscolare; contemporaneamente si andranno a eliminare eventuali compensi attraverso un lavoro di rinforzo muscolare globale dei muscoli del core, del quadricipite, del gluteo e del polpaccio.
Conclusa questa fase si deve necessariamente concludere il programma riabilitativo in campo per ritornare alla corsa e testare movimenti complessi come i cambi di direzione, gli scatti e le frenate: è fondamentale l’attività di prevenzione delle recidive effettuando un programma domiciliare di esercizi per mantenere la funzionalità e l’estensibilità del muscolo.
DISTURBO DEL LINGUAGGIO
Il Disturbo del Linguaggio fa parte dei disturbi del neurosviluppo ed è caratterizzato da un ritardo in uno o più ambiti dello sviluppo del linguaggio, in assenza di problemi cognitivi, sensoriali, motori, affettivi e di importanti carenze socio-ambientali.
Nonostante lo sviluppo linguistico abbia una grande variabilità nei primi 36 mesi di vita, normalmente intorno ai 12 mesi compaiono le prime parole e a 24 mesi il bambino ha già un vocabolario di circa 100 parole e forma le prime frasi (combinazioni di due parole es. “mamma acqua” per “mamma voglio l’acqua”, spesso associate a un gesto indicativo o simbolico).
Intorno ai 30 mesi di età avviene la vera esplosione linguistica, in particolare del vocabolario: il numero di parole aumenta in breve tempo e il bambino inizia a produrre frasi di tre o più parole che via via diventano frasi complesse.
L’età di tre anni costituisce una sorta di spartiacque tra i bambini cosiddetti “parlatori tardivi” e i bambini con un probabile disturbo del linguaggio. Nel 5-7% della popolazione il disturbo persiste dopo i 3 anni e, in questi casi, è raro che prima dell’età scolare si verifichi un recupero spontaneo delle abilità linguistiche attese per l’età cronologica. Per questo, anche se la diagnosi può essere fatta ai 4 anni, è bene che la presa in carico sia tempestiva, in modo particolare se si segnalano difficoltà comunicative e di comprensione. La presenza di una produzione di parole ancora non adeguata secondo i parametri dello sviluppo tipico dovrà necessariamente essere valutata da un professionista.
Bisogna considerare i seguenti campanelli d’allarme:
• 12 mesi: mancata comparsa delle prime parole;
• 18 mesi: vocabolario inferiore a 20 parole;
• 24 mesi: vocabolario inferiore a 50 parole;
• 24-30 mesi: assenza o ridotta presenza di gioco simbolico;
• 24-30 mesi: ritardo nella comprensione di ordini non contestuali e assenza di combinazioni di due parole;
• dopo i 30 mesi: assenza di frasi anche semplificate.
Il DSM 5 ha provveduto ad aggiornare la classificazione dei disturbi del linguaggio rispetto alla sua edizione precedente:
• Disturbo del linguaggio: viene diagnosticato come tale un disturbo dell’espressione del linguaggio e della ricezione del linguaggio;
• Disturbo fonetico-fonologico: in precedenza definito disturbo della fonazione; il disturbo fonetico-fonologico rientra nei “disturbi della comunicazione” e descrive in particolar modo una difficoltà relativa alla produzione di alcuni fonemi.
Durante l’eloquio, infatti possono essere presenti inversioni, omissioni, sostituzioni, che talvolta interferiscono sull’intellegibilità e sulla comunicazione verbale.
Oltre ad essere evidente il problema articolatorio, è riscontrabile anche un’alterazione nella discriminazione uditiva dei suoni (tratti distintivi) e nella corretta sequenza dei fonemi all’interno della parola (la struttura fonotattica). La ridotta capacità comunicativa può ripercuotersi nelle interazioni sociali e scolastiche.
• Disturbo della fluenza e balbuzie con esordio nell’infanzia.
Per quest’ultimo disturbo il DSM 5 propone i seguenti criteri diagnostici:
• Alterazioni della normale fluenza e della cadenza dell’eloquio, inappropriate per età e abilità linguistiche, che persistono nel tempo, sono caratterizzate dal frequente ripetersi di elementi specifici e non sono causate da disturbi neurologici o altre condizioni medico-psichiatriche;
• Ansia nella comunicazione o limitazioni della sua efficacia, della partecipazione sociale e delle performance scolastiche o professionali;
• Esordio nel periodo precoce dello sviluppo.
Questa alterazione funzionale può coinvolgere il ritmo, la velocità e la fluidità dell’eloquio: la persona che balbetta ha chiaramente in mente ciò che vuole dire, ma non riesce ad esprimerlo in maniera fluida. La balbuzie si manifesta con segni caratteristici, quali: la frequente ripetizione di suoni e sillabe, specie quelle posizionate all’inizio della parola; il prolungamento dei suoni; l’interruzione delle parole; blocchi nel parlato, udibili o silenti; pause silenziose che accompagnano il tentativo di parlare; parole emesse con eccessiva tensione e rigidità fisica.
DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO
I disturbi dello spettro autistico sono un insieme di diverse alterazioni del neurosviluppo legate a un’anomala maturazione cerebrale che inizia già in epoca fetale, molto prima della nascita del bambino. Il disturbo si presenta in modo molto variabile da caso a caso, ma in generale è caratterizzato dalla compromissione della comunicazione e dell’interazione sociale e dalla presenza di interessi e comportamenti ristretti e ripetitivi.
Oggi si stima che almeno un bambino su 100 abbia un disturbo dello spettro autistico. I disturbi dello spettro autistico si manifestano in genere nei primi anni di vita del bambino. Generalmente i genitori sono i primi a rendersi conto delle difficoltà del loro bambino già dai 18 mesi. In casi molto lievi questo può accadere anche dopo i 24 mesi. In alcuni bambini i genitori riportano uno sviluppo apparentemente adeguato fino ai 18 mesi, seguito poi da un arresto e da una regressione di competenze già acquisite.
I primi campanelli di allarme solitamente sono:
• Problemi di comunicazione e di socializzazione. I bambini con disturbi dello spettro autistico manifestano anzitutto difficoltà nella comunicazione non verbale: non guardano negli occhi ed evitano lo sguardo, sembrano ignorare le espressioni facciali di mamma e papà e non sembrano in grado di utilizzare la mimica facciale e i gesti per comunicare, hanno scarso interesse per gli altri e per le loro attività, scarso interesse per gli altri bambini, etc.;
• Presenza di comportamenti stereotipati come un interesse eccessivo per alcuni oggetti o parti di oggetti, un eccessivo attaccamento a comportamenti di routine, la presenza di gesti sempre uguali e ripetuti delle mani e del corpo.
LESIONI CARTILAGINEE DELLA CAVIGLIA
Le lesioni cartilaginee della caviglia si verificano in seguito a traumi distorsivi e sono spesso causa di dolore persistente con conseguente limitazione funzionale. La sede più frequente di lesione è il compartimento mediale.
Probabilmente in passato hai subito numerosi traumi distorsivi che hanno determinato la persistenza di dolore, limitazioni dell’articolarità, gonfiore e limitazione dell’attività sportiva.
Le radiografie di pronto soccorso sono sempre indicative.
La RMN è l’esame elettivo, per constatare fratture osteocondrali con spostamento del frammento.
Il trattamento delle lesioni cartilaginee della caviglia differisce a seconda dell’estensione della lesione. Una volta escluso che la lesione è del 4° livello (lesione con spostamento del frammento dove l’approccio è solo chirurgico), si può procedere con un trattamento riabilitativo.
FASCITE PLANTARE
La fascite plantare è una patologia che riguarda la struttura di tessuto connettivo fibroso che origina dalla tuberosità calcaneare e si inserisce sulle teste metatarsali.
Durante la fase di appoggio nel passo e nella corsa la fascia plantare viene stirata in modo significativo e il punto maggiormente sollecitato è la sua inserzione sul calcagno.
Qui può prodursi nel tempo una calcificazione allungata che segue il decorso della fascia e che radiologicamente produce il tipico sperone calcaneare. La presenza dello sperone non è però necessariamente legata alla sintomatologia: ci sono speroni non dolorosi (riscontrati per caso in una radiografia del piede eseguita per altri motivi) e fasciti plantari molto dolorose ma che radiologicamente non hanno prodotto nessun sperone.
La fascite plantare è una patologia molto comune tra gli sportivi che praticano corsa, ballo, tennis, basket e magari hanno sbagliato la progressione dei carichi di lavoro durante l’allenamento.
Si presenta spesso anche tra gli anziani che sono passati da scarpe con un rialzo a scarpe basse, tra chi per lavoro è costretto ad usare scarpe antiinfortunistica, nei pazienti in sovrappeso e tra coloro che hanno un’alterazione anatomica a livello dell’arco plantare (piede cavo rigido, piede piatto).
In linea di massima questa patologia tende a cronicizzare perché viene spesso trascurata dai pazienti per molti mesi e questo contribuisce a rallentarne la guarigione.
La sintomatologia della fascite plantare è caratterizzata da dolore acuto al mattino e nei movimenti a freddo; il dolore tende a migliorare dopo i primi passi e a riacutizzarsi durante la giornata. Può essere presente un gonfiore circoscritto alla zona dolente. Non di rado i muscoli del polpaccio presentano un deficit di forza e di estensibilità.
Per la diagnosi è utile eseguire una radiografia ed eventualmente un’ecografia.
La terapia immediata prevede il riposo sportivo e l’eliminazione dei fattori predisponenti (uso di calzature idonee e calo ponderale). Potrà essere utile l’uso di plantari per correggere eventuali anomalie a carico dell’arco plantare. Spesso la terapia ad onde d’urto si rivela molto efficace nel risolvere il quadro infiammatorio.
ROTTURA DEL TENDINE D’ACHILLE
Il tendine d’Achille è il tendine più voluminoso e robusto del nostro organismo.
Sollecitazioni ripetitive negli atleti, o il semplice avanzare dell’età nei sedentari, possono portare ad alterazioni della struttura tendinea fino a rotture parziali o complete del tendine stesso.
La rottura del tendine d’Achille è la conseguenza di una tendinite cronica spesso non riconosciuta o sottovalutata. Colpisce soprattutto i saltatori, i corridori, i calciatori ed i tennisti, realizzandosi come conseguenza di una brusca contrazione muscolare.
La sintomatologia è caratterizzata da un dolore acuto e improvviso nella regione posteriore della gamba, spesso associato a un rumore di “schiocco”. Probabilmente hai avuto la sensazione di aver ricevuto una frustata o un calcio da un avversario. La rottura del tendine d’Achille genera una impotenza funzionale immediata tale da impedire la deambulazione.
La diagnosi si basa essenzialmente sul quadro clinico: a volte è presente un vallo ben evidente in corrispondenza della rottura. Il sospetto diagnostico viene spesso confermato da un esame ecografico che evidenzia molto bene l’interruzione delle fibre tendinee e permette di distinguere tra le rotture totali e quelle subtotali.
Per trattare la rottura del tendine d’Achille è indispensabile intervenire chirurgicamente.
Tenorrafia achillea
Esistono numerosi tipi di sutura del tendine d’Achille. Questo tipo di intervento viene detto tenorrafia achillea e viene oggi eseguita con tecniche che prevedono piccolissime incisioni, tali da ovviare ai disturbi di cicatrizzazione legati alle incisioni molto lunghe, ed in grado di ridurre i tempi di recupero.
L’intervento di tenorrafia achillea viene di solito seguito dall’immobilizzazione con tutore in equinismo per 2-3 settimane e un tutore in flessione neutra per 4 settimane con carico permesso dopo la 4° settimana dall’intervento chirurgico.
Le terapie riabilitative cominciano in genere dalla 4°-5° settimana dall’intervento e si svolgono inizialmente alternando piscina e palestra.
Riabilitazione per rottura del tendine d’Achille
Dopo essere stato sottoposto ad un intervento di tenorrafia il paziente che ha subito la rottura totale del tendine d’Achille si presenta con un tutore bloccato in equinismo a 20° dopo trenta giorni. Dopo il primo mese è possibile effettuare una visita medica accurata e iniziare il programma riabilitativo.
Il primo obiettivo è quello di ridurre la flogosi e il dolore con massoterapia drenante, ultrasuoni ad immersione, laser e di recuperare gradualmente l’articolarità e la corretta deambulazione: per il mese successivo è possibile concedere il carico ma solo con tutore tipo walker; in questa fase sono utili esercitazioni in piscina di mobilizzazione passiva e attiva e allungamento della catena posteriore per permettere un più rapido recupero della mobilità e una più sicura ripresa dello schema del passo.
Ottenuto il carico completo dal chirurgo è possibile progredire nel programma terapeutico in palestra con esercizi di rinforzo concentrico ed eccentrico progressivo dei gemelli, del soleo, dei tibiali, peronei, intrinseci del piede, quadricipite sia a corpo libero che con attrezzi ed esercitazioni aerobiche su bici, ellittica, tapis roullant, per il recupero metabolico; è la fase più lunga ed è importante gestire bene i periodi di carico e scarico di forza per permettere di arrivare al test isocinetico con una differenza di forza tra i due arti < del 20%.
Superato il test, l’ultimo obiettivo è quello del recupero del gesto atletico in campo dove vengono effettuate esercitazioni propedeutiche al recupero della corsa rettilinea, in curva, balzi, percorsi e fondamentali tecnici dello sport praticato.
È fondamentale prima della dimissione aver recuperato il 100% di forza al test isocinetico e aver recuperato l’attività metabolica ottimale misurata con un test di soglia.
TENDINOPATIA ACHILLEA
Sotto il nome generico di tendinopatia achillea rientrano una serie di patologie di tipo infiammatorio e degenerativo catalogate a seconda dei casi come tendiniti, tendinosi e tendiniti inserzionali.
Possono essere la conseguenza di un evento acuto scatenato da un sovraccarico funzionale o da microtraumi ripetuti spesso favoriti da calzature non idonee, terreni duri o riscaldamento inappropriato prima dell’attività fisica.
Inizialmente i sintomi tendono a peggiorare a riposo (i primi passi al risveglio sono particolarmente fastidiosi) e migliorano “a caldo”. In seguito il dolore non scompare con l’attività ma la limita fino a renderla impossibile. L’errata sollecitazione della porzione distale del tendine può nel tempo portare ad una borsite complicando ulteriormente il quadro clinico.
La diagnosi della tendinopatia achillea si basa sul quadro clinico caratterizzato da dolore, gonfiore, arrossamento della cute, e viene confermata dall’ecografia che chiarisce sede, grado ed estensione della lesione.
Il trattamento di una tendinopatia è sempre molto delicato e le possibilità di successo dipendono dalla gravità del quadro patologico e dal tempo di insorgenza della sintomatologia. È comunque fondamentale impostare precocemente il trattamento riabilitativo.
FRATTURA DEL METATARSO
La fratture del metatarso più frequente è quella che riguarda il IVº e il Vº metatarso e nella maggioranza dei casi non viene operata.
Il quinto metatarso è l’osso più lungo della parte esterna del piede. La frattura del quinto metatarso del piede può essere di due tipi:
• frattura da avulsione: una porzione di osso viene strappata via da un tendine o da un legamento; solitamente si manifesta in seguito a una distorsione della caviglia, dopo una ricaduta da un salto o dopo un infortunio improvviso (incidenti motociclistici e automobilistici);
• frattura da stress: colpisce soprattutto gli anziani e gli sportivi all’inizio della stagione sportiva; è dovuta a un utilizzo eccessivo o ripetitivo dell’osso metatarsale.
La frattura meta si presenta con dolore acuto nella parte esterna del piede, rigidità, gonfiore, formazione di ematomi, difficoltà di deambulazione.
Per la diagnosi corretta è indispensabile effettuare una radiografia del piede.
Nel caso della frattura del metatarso è possibile optare per un trattamento non chirurgico oppure per un intervento chirurgico.
Il trattamento non chirurgico è previsto quando la frattura è localizzata fra l’unione della parte extra-articolare e intra-articolare della protuberanza del quinto metatarso; oppure presso l’articolazione prossimale del quinto metatarso.
Di solito è necessaria l’immobilizzazione dell’articolazione con un gesso per almeno 30 giorni, dopo i quali si apprezza frequentemente una notevole ipotrofia dei muscoli della gamba.
Il trattamento chirurgico invece prevede un innesto osseo o l’inserimento di una vite intramidollare (osteosintesi) ed è consigliato a tutti gli sportivi e nel caso in cui la frattura si manifesta presso l’articolazione distale del quinto metatarso oppure nella parte centrale del quinto metatarso.
Il periodo riabilitativo in seguito alla frattura metatarsale inizia con un carico sfiorante e progressivo sino all’abbandono completo delle stampelle.
È indispensabile recuperare articolarità, fluidità e propriocezione. Viene impostato un programma di rinforzo muscolare di tutto l’arto inferiore, fino alla riabilitazione sul campo sport specifica.
Nel caso di osteosintesi, il percorso riabilitativo non cambia nella sostanza. Sarà anzi possibile ipotizzare una riduzione dei tempi riabilitativi nella concessione del carico.
DISTORSIONE DELLA CAVIGLIA
Le distorsione della caviglia fa parte dell’esperienza di molte persone anche non sportive, ma rappresentano indubbiamente l’evento accidentale più frequente nella carriera sportiva di un atleta.
Il più frequente meccanismo di distorsione della caviglia è in inversione (rotazione interna della pianta del piede) ma può essere anche causato da una eversione (rotazione esterna della pianta del piede) e a volte i due meccanismi possono coesistere.
Il legamento maggiormente interessato nel meccanismo lesivo in inversione è il peroneo astragalico anteriore (PAA) seguito dal peroneo-calcaneare (PC) e dal peroneo astragalico posteriore (PAP), mentre le lesioni in eversione determinano una lesione a carico del legamento deltoideo.
Nel caso di distorsione della caviglia, il gonfiore è in genere immediato e il dolore può essere molto intenso; i movimenti sono molto limitati dal gonfiore e la stabilità della caviglia è compromessa nei gradi più avanzati.
In un’articolazione molto gonfia la radiografia viene quasi sempre effettuata per escludere che vi siano fratture. L’ecografia effettuata a distanza di alcuni giorni consente di evidenziare la lesione delle strutture legamentose tipiche della distorsione. In casi selezionati l’esame può essere completato con una RMN o TC.
Il trattamento riabilitativo delle lesioni traumatiche acute è fondamentale per il ripristino della stabilità della caviglia e della sua funzionalità dinamica. Alla fine del ciclo riabilitativo è poi importante che il paziente esegua un programma di mantenimento allo scopo di evitare o minimizzare le recidive.
Riabilitazione per distorsione della caviglia
La distorsione della caviglia, nella maggior parte dei casi avviene in pazienti che praticano attività sportiva, ma si può presentare anche nella vita quotidiana. Frequentemente il trauma è in inversione, ma può anche presentarsi in eversione.
Nella maggior parte dei casi il paziente dopo il trauma è già stato al pronto soccorso e quindi già in possesso di una RX per escludere fratture e ha un taping o tutore per immobilizzare l’articolazione; si presenta nel nostro centro già il giorno dopo il trauma per una visita e un’ecografia per determinare il grado della distorsione (in base al numero di lesioni legamentose). Solo con una diagnosi accurata è possibile determinare il programma terapeutico adeguato.
Il primo obiettivo del protocollo è la riduzione del gonfiore e del dolore attraverso l’utilizzo di ultrasuoni ad immersione, laser e massaggio drenante e ghiaccio; in questa fase si parla di protocollo RICE , acronimo che definisce le procedure da seguire, Rest (riposo), Ice (ghiaccio), Compression (compressione), Elevation (arto in scarico).
Una volta ridotto il gonfiore si deve recuperare l’articolarità della caviglia attraverso un pompage soft della tibio-tarsica, mobilizzazioni attive e passive, stretching specifico dei muscoli della gamba e massaggio dei muscoli del piede con l’obiettivo di recuperare la deambulazione corretta.
Contestualmente si può iniziare la parte più importante del protocollo terapeutico, quella del recupero della forza e della propriocezione, attraverso esercizi di tonificazione dei muscoli che sottendono alla caviglia, come il polpaccio, tibiale anteriore e posteriore, peronei, intrinseci del piede, muscoli plantari.
In questa fase è importante anche il rinforzo dei muscoli della core e del medio gluteo (importante per stabilizzare lateralmente l’arto).
Successivamente si può procedere ad esercitazioni più complesse come tavolette propriocettive, percorsi, balzi su tappeto elastico, andature talloni-punte su bordo interno/esterno.
L’ultima fase del programma terapeutico prevede la rieducazione sul campo sportivo con andature specifiche dello sport di provenienza, corsa in curva, percorsi, balzi e fondamentali specifici e un programma di prevenzione delle recidive.
FRATTURA DEl MALLEOLO
Le frattura del malleolo puo’ verificarsi per traumi sportivi, incidenti stradali, domestici o sul lavoro. Nella maggior parte dei casi è necessario un periodo di 30–40 giorni d’immobilizzazione con gesso o tutore.
Conseguentemente all’immobilizzazione la caviglia sarà rigida e sarà evidente una marcata e generalizzata ipotrofia muscolare.
Quando il medico ti visiterà, è fondamentale che abbia a disposizione tutte le radiografie effettuate. In particolare, è decisiva quella di controllo dopo la rimozione del gesso: solo se la frattura è ben consolidata e i malleoli sono in asse avremo un buon esito riabilitativo.
Per il pieno recupero la rieducazione dura a lungo e i tempi per consentire il carico vanno condivisi con l’ortopedico. Vengono utilizzate terapie fisiche e farmacologiche per ridurre dolore e gonfiore, terapie manuali e linfodrenaggio, esercizi propriocettivi precoci introdotti con il progredire del carico ed esercizi di rinforzo della muscolatura della caviglia. Precocemente in alternanza alla palestra per favorire il recupero della schema corretto del passo è indispensabile la rieducazione in acqua.
Intervento per frattura del malleolo
La frattura del malleolo è tra le più comuni fratture dell’arto inferiore: interessa il malleolo interno e il malleolo esterno, e spesso è associata a lesioni legamentose della caviglia.
La frattura che coinvolge i due malleoli e la porzione posteriore della tibia è definita frattura trimalleolare.
A seconda della diversa tipologia di frattura vengono effettuati interventi chirurgici diversi, con l’utilizzo di svariati mezzi di sintesi, o con fissatore esterno.
Il percorso riabilitativo può iniziare dopo un periodo di gesso, oppure con il fissatore. È importante tenere a mente che si tratta di una rieducazione lunga ed impegnativa, che richiede mediamente 4 mesi per il recupero di una funzionalità discreta ed 8 mesi per il recupero dell’attività sportiva agonistica.
In genere dopo un anno dall’intervento viene consigliata la rimozione dei mezzi di sintesi.
Il trattamento riabilitativo dopo la rimozione dei mezzi di sintesi viene effettuato per almeno un mese.
NEUROMA DI MORTON
Il neuroma di Morton è riconducibile ad un rigonfiamento dei rami del nervo plantare che decorrono tra il IIº e il IIIº e tra il IIIº ed il IVº metatarso.
La compressione del nervo tra le teste metatarsali è determinata dai microtraumi che si verificano durante la deambulazione e dall’utilizzo di scarpe troppo strette.
La sintomatologia legata al Neuroma di Morton è rappresentata da dolore a comparsa improvvisa, spesso paragonata ad una scossa elettrica. Spesso coesistono parestesie sulle due dita interessate.
La diagnosi è essenzialmente clinica ma la conferma può avvenire attraverso un’ecografia o una risonanza magnetica (RMN).
Il trattamento è inizialmente conservativo ma nei casi refrattari si deve ricorrere all’intervento chirurgico che consiste nell’asportazione del neuroma.
FRATTURA DA STRESS
Il trattamento della frattura da stress, di tipo conservativo, si sviluppa nelle tradizionali 5 fasi, mettendo immediatamente l’atleta a riposo dalle 2 alle 6 settimane: scarico con stampelle ed eventualmente apparecchio gessato nei casi più gravi.
Nella frattura da stress le terapie fisiche possono giovarsi dei campi elettromagnetici pulsati.
Anche le onde d’urto possono accelerare i tempi di guarigione. Con la progressiva scomparsa del dolore, il trattamento potrà essere effettuato in piscina (in scarico) per recuperare il tono muscolare, la propriocettività e la resistenza aerobica di base.
Alla ripresa dell’attività, fondamentale è l’analisi e la correzione dei fattori di rischio, come la scelta dell’equipaggiamento sportivo (scarpe).
Si raccomanda sempre l’esecuzione di un adeguato riscaldamento prima di cominciare qualsiasi disciplina sportiva.
FRATTURA DI TIBIA E PERONE
Una frattura avviene quando la forza applicata è di un’intensità tale da superare la resistenza dell’osso.
In base alla sede della frattura si potranno distinguere 3 diversi distretti:
• terzo prossimale;
• terzo medio;
• terzo distale.
In caso di frattura di tibia e perone tale distinzione è importante sia dal punto di vista riabilitativo che dal punto di vista prognostico, in quanto nelle fratture del terzo prossimale della tibia può essere coinvolta l’articolazione del ginocchio, mentre in quelle del terzo distale di tibia e/o perone potrebbe essere coinvolta l’articolazione tibio-tarsica.
Queste fratture interessano pazienti che hanno subito un incedente stradale oppure un trauma durante la pratica sportiva.
I sintomi principali di una frattura di tibia e perone sono il dolore, che può essere presente e con localizzazione diversa a seconda della sede della frattura; in realtà può essere irradiato a tutta la gamba; il gonfiore, in genere diffuso; è generalmente presente limitazione funzionale ed ematoma. La frattura meta-diafisaria tibiale in genere non comporta grosse limitazione del range articolare.
La conferma diagnostica si avvale di RX convenzionali nelle proiezioni standard per valutare la formazione del callo osseo; ecografia (in quei casi in cui si sospetta una tendinopatia associata, o per il sospetto di una raccolta ematica organizzata che potrebbe rallentare o ostacolare il progressivo recupero). TAC o RMN solo per indagare problematiche specifiche, cosi come la EMG in quei casi in cui si sospetta una lesione o sofferenza nervosa.
Nel caso di fratture tibiali trattate conservativamente (apparecchio gessato) si può iniziare con il programma riabilitativo. Questi sono i casi, ad esempio, delle fratture del terzo distale se la caviglia è stabile, la frattura non è scomposta o è lievemente scomposta (meno di 2 mm).
La frattura del perone può essere associata a frattura della tibia (frattura biossea) oppure essere isolata.
Nelle fratture peroneali da trauma indiretto sono frequenti le lesioni della tibio-tarsica. Nel caso di fratture composte ed isolate, con buon allineamento dei capi ossei ed assenza di lesioni legamentose può essere effettuato un trattamento conservativo con apparecchio gessato, seguito da almeno 3 mesi di rieducazione.
Il trattamento delle fratture peroneali associate a fratture tibiali segue quanto detto per queste ultime.
Per tornare all’attività sportiva con potenzialità traumatica, sia nel caso di fratture composte che scomposte, occorre che il paziente si doti di tutore su misura in fibra di carbonio.
Nel caso di fratture che necessitano del trattamento chirurgico è necessario un periodo riabilitativo, della durata, genericamente, di 4 mesi.
In caso invece di frattura scomposta del perone, questa si tratta con mezzi di sintesi (placca e viti). Nel caso di associata lesione del legamento deltoideo della caviglia con apertura della pinza malleolare è opportuno un intervento di stabilizzazione articolare, seguito da riabilitazione post-chirurgica e recupero funzionale fino al ritorno allo sport.
Il percorso riabilitativo prevede una prima fase di controllo del dolore e recupero dell’articolarità attiva e passiva dell’anca, del ginocchio e della caviglia, accompagnato da un blando rinforzo muscolare.
Raggiunto l’obiettivo si può iniziare l’attività aerobica e la fase del recupero della forza con esercizi per il gastrocnemio, tibiale anteriore e posteriore, soleo, flessori e estensori e intrinseci del piede, quadricipite, gluteo flessori e muscoli del core; contemporaneamente si possono iniziare esercitazioni di propriocettiva e equilibrio via via più complesse.
Fondamentale è concludere il percorso riabilitativo con l’ultima fase del campo, con esercitazioni ad andature specifiche dello sport praticato e una ripresa graduale e sicura del movimento e del gesto sportivo.
LESIONI MUSCOLARI DELLA GAMBA
Le lesioni muscolari della gamba sono tra i traumi più comuni in quei soggetti che praticano attività sportiva sia in modo amatoriale che agonistico. Possono insorgere a causa di un colpo ricevuto (lesioni da trauma diretto o contusioni) oppure a causa di un movimento errato (lesioni da trauma indiretto).
Le contusioni sono facili da diagnosticare in quanto il soggetto è in grado di riferire immediatamente il momento esatto in cui ha sentito il dolore, perché derivato da un contrasto con un altro soggetto o con un ostacolo. In questi casi, a seconda di quanto il dolore muscolare limita il movimento, la contusione viene definita di grado:
• Lieve, quando il range di movimento è superiore alla metà del normale;
• Moderato, quando il range di movimento è tra la metà e un terzo;
• Severo, quando il range di movimento è inferiore a un terzo del normale.
In questi casi è opportuno il ricorso alle cure nel minor tempo possibile per ridurre i tempi di guarigione.
Più complessa, invece, è la classificazione e la diagnosi dei traumi indiretti.
Se il dolore insorge accompagnato da un aumento diffuso del tono muscolare, come può capitare al termine di un’attività sportiva, non è riferibile ad un preciso momento, non è ben localizzato e il paziente lo indica a mano aperta, su tutto il muscolo, siamo di fronte ad una contrattura muscolare. Se al contrario il dolore è ben individuabile alla palpazione, insorge progressivamente, permette di continuare un’attività motoria anche se con fatica, allora siamo di fronte ad uno stiramento, caratterizzato da assenza di lesione anatomica macroscopica. Anche in questo caso è opportuno il ricorso alle cure nel minor tempo possibile
Le lesioni muscolari della gamba (di primo, secondo e terzo grado) necessitano invece di tempi di recupero più lunghi. In questi casi è sempre presente una lesione anatomica, di gravità variabile. Tale gravità è direttamente proporzionale alla quantità di tessuto interessato, al versamento ematico e al muscolo infortunato.
È difficile non individuare subito una lesione muscolare, perché l’atleta sente un dolore improvviso, acuto, con un specifico riferimento ad un gesto tecnico; l’atleta addirittura può indicare con precisione il punto della lesione.
L’impotenza funzionale è tanto più precoce quanto grave è la lesione.
La diagnosi è essenzialmente clinica ma viene coadiuvata da un esame ecografico effettuato preferibilmente a 24/48 ore dal trauma; l’ecografia viene ripetuta periodicamente durante la riabilitazione per monitorare la guarigione.
Nel trattamento delle lesioni muscolari della gamba è fondamentale l’anamnesi non solo per inquadrare l’infortunio ma anche per capire se vi sono stati altri episodi oltre al primo (recidive) o se si sono già instaurate recidive.
La diagnosi esatta dopo aver effettuato l’ecografia (contrattura, stiramento, strappo di 1°,2° o 3° grado) orienterà la prognosi e l’iter terapeutico.
Una evenienza abbastanza frequente negli sportivi è lo strappo a carico del bicipite femorale. Durante la fase acuta nei primi momenti dopo l’evento traumatico è opportuno arrestare l’emorragia attraverso fasciature compressive e ghiaccio; successivamente dopo l’indagine ecografica e la diagnosi si può iniziare il trattamento riabilitativo controllando il dolore con terapie fisiche come laser, tens, successivamente ultrasuoni, e recuperare l’articolarità attraverso esercizi di allungamento e distensione.
È utile iniziare fin da subito l’attività aerobica consentita senza dolore e progressivamente aumentare l’intensità e la varietà dello stimolo.
Quando l’allungamento risulta ormai negativo e non c’è dolorabilità alla palpazione si può iniziare il recupero muscolare del distretto interessato. Inizialmente si lavora in maniera concentrica, ma fondamentalmente in eccentrica, per elasticizzare la cicatrice e migliorare l’estensibilità muscolare. Contemporaneamente si andranno ad eliminare eventuali compensi attraverso un lavoro di rinforzo muscolare globale dei muscoli del core, del quadricipite, del gluteo e del polpaccio.
Conclusa questa fase, il programma riabilitativo procede con l’esecuzione di movimenti complessi come i cambi di direzione, gli scatti e le frenate: è fondamentale l’attività di prevenzione delle recidive effettuando un programma domiciliare di esercizi per mantenere la funzionalità e l’estensibilità del muscolo.
LESIONI MUSCOLARI DELLA COSCIA
Le lesioni muscolari della coscia sono tra i traumi più comuni in medicina dello sport (dal 10% al 30% di tutti gli infortuni sportivi).
Le lesioni muscolari della coscia possono insorgere o a causa di un colpo ricevuto (lesione da trauma diretto o contusioni) o a causa di un movimento errato (lesione da trauma indiretto).
Le contusioni sono facilissime da diagnosticare, perché è in grado di riferire immediatamente il momento esatto in cui ha sentito il dolore, perché derivato da un contrasto con l’avversario o con un ostacolo.
In questi casi, a seconda di quanto il dolore muscolare limita il movimento, la contusione viene definita di grado lieve, moderato o severo.
In questi casi prima si inizia il percorso terapeutico, più veloce sarà la remissione dal danno.
Più complessa è la classificazione e la diagnosi dei traumi indiretti.
Se il dolore insorge accompagnato da un aumento diffuso del tono muscolare, solitamente al termine dell’attività sportiva, non è riferibile a un preciso momento di gioco, non è ben localizzato e il paziente lo indica a mano aperta, su tutto il muscolo, siamo di fronte a una contrattura muscolare.
Se al contrario il dolore è ben individuabile alla palpazione, insorge progressivamente durante l’attività sportiva, permette di continuare a giocare anche se con fatica, allora siamo di fronte a uno stiramento, caratterizzato da assenza di lesione anatomica macroscopica. Anche in questo caso prima si comincia il trattamento, prima si guarisce.
Le lesioni o strappi muscolari (di primo, secondo e terzo grado) necessitano invece di tempi di recupero più lunghi. In questi casi è sempre presente una lesione anatomica, di gravità variabile. Tale gravità è direttamente proporzionale alla quantità di tessuto interessato, al versamento ematico e al muscolo infortunato.
È difficile non individuare subito una lesione muscolare, perché l’atleta sente un dolore improvviso, acuto, con un specifico riferimento a un gesto tecnico; l’atleta addirittura può indicare con precisione il punto della lesione.
L’impotenza funzionale è tanto più precoce quanto grave è la lesione.
La diagnosi di una lesione muscolare è essenzialmente clinica ma viene coadiuvata da un esame ecografico effettuato preferibilmente a 24/48 ore dal trauma; l’ecografia viene ripetuta periodicamente durante la riabilitazione per monitorare la guarigione.
Il trattamento deve tener conto del grado, della sede e del tipo di paziente.
Le lesioni muscolari della coscia viene spesso più “bistrattata” che trattata. Proprio per questo abbiamo definito dei protocolli che tengono nella giusta considerazione il tipo di lesione, la sua sede e il tipo di paziente. Il nostro protocollo riabilitativo prevede un monitoraggio costante sia clinico che ecografico, proprio perché il destino delle lesioni muscolari dipende non soltanto dal grado e dalla sede della lesione, ma anche dagli errori di trattamento.
Riabilitazione per lesioni muscolari della coscia
Nel trattamento di lesioni muscolari della coscia è fondamentale l’anamnesi non solo per inquadrare l’infortunio ma anche per capire se vi sono stati altri episodi oltre al primo (recidive) o se si sono già instaurate recidive.
La diagnosi esatta dopo aver effettuato l’ecografia (contrattura, stiramento, strappo di 1°, 2° o 3° grado) orienterà la prognosi e l’iter terapeutico. Sarà inoltre importante valutare fattori predisponenti (ipoestensibilità a livello di altri gruppi muscolari, squilibri, blocchi vertebrali, sovraccarichi funzionali), positività ai test chinesiologici per patologie malocclusali.
In questa sede ci occupiamo del trattamento dello strappo del bicipite femorale, evenienza abbastanza frequente negli sportivi.
Durante la fase acuta nei primi momenti dopo l’evento traumatico è opportuno arrestare l’emorragia attraverso fasciature compressive e ghiaccio; successivamente dopo l’indagine ecografica e la diagnosi si può iniziare il trattamento riabilitativo controllando il dolore con terapie fisiche come laser, tens endorfinica e successivamente ultrasuono, e recuperare l’articolarità (negativizzare lo stretching) attraverso esercizi di allungamento e distensione.
È utile iniziare fin da subito l’attività aerobica consentita senza dolore e progressivamente aumentare l’intensità e la varietà dello stimolo.
Quando lo stretching è negativo e non c’è dolorabilità alla palpazione si può iniziare il recupero muscolare del distretto interessato dapprima in concentrica ma fondamentalmente in eccentrica per elasticizzare la cicatrice e migliorare l’estensibilità muscolare; contemporaneamente si andranno a eliminare eventuali compensi attraverso un lavoro di rinforzo muscolare globale dei muscoli del core, del quadricipite, del gluteo e del polpaccio.
Conclusa questa fase si deve necessariamente concludere il programma riabilitativo in campo per ritornare alla corsa e testare movimenti complessi come i cambi di direzione, gli scatti e le frenate: è fondamentale l’attività di prevenzione delle recidive effettuando un programma domiciliare di esercizi per mantenere la funzionalità e l’estensibilità del muscolo.
LA ROTTURA DEL LEGAMENTO CROCIATO ANTERIORE
La rottura del legamento crociato anteriore (LCA) è molto frequente specie in chi pratica sport di alto impatto come il calcio, lo sci, il volley e il basket.
Il quadro tipico della rottura del legamento crociato anteriore prevede un dolore intenso, gonfiore molto marcato che insorge rapidamente e sensazione di cedimento con importante limitazione funzionale.
La diagnosi si basa sul racconto del paziente, sull’esame clinico per valutare la stabilità passiva del ginocchio e su esami strumentali come la risonanza magnetica (RMN) per valutare anche eventuali lesioni associate a carico delle strutture adiacenti al legamento.
Nel caso di rottura del legamento crociato anteriore (LCA), la scelta tra il percorso conservativo o l’intervento chirurgico è complessa e deve tener conto di numerosi elementi: l’età del paziente, il grado di instabilità, la presenza o meno di lesioni associate e il livello di attività sportiva.
In tutti i casi è fondamentale seguire un appropriato ciclo di riabilitazione.
Le tecniche chirurgiche utilizzate più frequentemente per la ricostruzione del legamento crociato anteriore (LCA) sono sostanzialmente 3:
• Ricostruzione con tendini del semitendinoso (ST) e gracile (GR)
• Ricostruzione con tendine rotuleo
• Ricostruzione con allograft (tendine da donatore)
La ricostruzione LCA con tendini del semitendinoso e gracile è ormai la più diffusa, prevede l’utilizzo dei tendini di due muscoli flessori mediali di coscia che vengono poi fatti passare attraverso un tunnel osseo in articolazione.
L’intervento è effettuato in artroscopia.
Nella fase riabilitativa bisognerà rispettare i tempi di guarigione dei muscoli flessori della coscia da cui è stato effettuato il prelievo.
La ricostruzione LCA con tendine rotuleo prevede l’espianto del terzo centrale del tendine rotuleo attraverso una cicatrice mediana di circa 5 cm e poi il suo inserimento in articolazione attraverso un tunnel osseo sotto guida artroscopica.
Questo tipo di intervento tende ad indebolire l’apparato estensore del ginocchio e pertanto carichi eccessivi in riabilitazione possono causare fastidiose tendinopatie a carico del tendine rotuleo e del tendine quadricipitale ritardando i tempi di recupero.
La ricostruzione LCA con allograft (tendine da donatore) è un innesto ottenuto da un tendine d’Achille o rotuleo da donatore. L’intervento ha il vantaggio di non prevedere il prelievo di tendini del paziente, evitando così di indebolire i flessori di coscia o il quadricipite come nei precedenti due interventi.
Riabilitazione per rottura del legamento crociato anteriore (LCA)
Il trattamento della lesione del legamento crociato anteriore (LCA) può essere di due tipi: conservativo e chirurgico, anche se la stragrande maggioranza dei pazienti propende per la via chirurgica per i problemi di instabilità e di artrosi precoce derivanti dalla rottura. La tecnica chirurgica più utilizzata è quella che usa come neolegamento il tendine del semitendinoso e gracile della stessa gamba.
La riabilitazione in seguito alla ricostruzione del legamento crociato anteriore inizia già in seconda giornata in ospedale o a domicilio.
A seconda delle equipe ortopediche viene consigliato o meno un tutore nel post-operatorio. Quasi sempre l’uso di stampelle viene protratto per circa 3 settimane.
Il trattamento post chirurgico prevede una prima fase di controllo del gonfiore (attraverso terapie fisiche strumentali quali la crioterapia o la tecarterapia) e recupero dell’articolarità (in primo luogo l’estensione) e di ripresa dello schema del passo, essenzialmente svolta in piscina. Parallelamente si può iniziare precocemente la fase di recupero della forza dei quadranti d’anca, gluteo (aiutano la deambulazione) del quadricipite, in catena cinetica chiusa e successivamente aperta (il vasto mediale è il muscolo che si atrofizza maggiormente dopo intervento, quindi è necessario un suo completo recupero) flessori (mediali) adduttori e intrarotatori di ginocchio (che hanno subito il prelievo biologico e quindi indeboliti). Accanto all’ esercizio terapeutico svolto in palestra il recupero muscolare può essere coadiuvato dall’utilizzo dell’elettroterapia o della vibra.
Per quanto riguarda gli atleti agonisti il percorso terapeutico viene completato sul campo per il recupero della gestualità specifica.