Stenosi del canale lombare

Con il termine di stenosi del canale lombare si identifica una riduzione del diametro del canale vertebrale con graduale compressione e sofferenza del midollo spinale e delle radici nervose. L’instaurarsi di questa condizione è causa, il più delle volte, dell’evoluzione di processi degenerativi come fenomeni spondilosici e spondiloartrosici, comparsa di ernie discali o fattori traumatici.
La sintomatologia predominante di questo disturbo è data dai segni neurologici di compromissione midollare con conseguente comparsa di lombalgia, lombosciatalgia, lombocruralgia, deficit di sensibilità e riflessi agli arti inferiori e perdita di tono-trofismo muscolare con conseguente difficoltà a mantenere a lungo la posizione eretta e a camminare.
Il trattamento di scelta è conservativo nelle forme più lievi, in cui si procede ad un trattamento di idrokinesiterapia o fisiokinesiterapia mirato e riduzione del peso corporeo.
Nelle forme più gravi di stenosi del canale lombare, invece, è necessario un intervento chirurgico.

Riabilitazione per la stenosi del canale lombare
Il trattamento prevede esercizi attivi e passivi finalizzati alla decompressione, al riallineamento vertebrale, al miglioramento del range articolare e alla tonificazione muscolare, con l’utilizzo di pompage della colonna, massoterapia ed esercizi di allungamento e di rinforzo soprattutto in vasca riabilitativa.
A questi si possono inoltre abbinare delle terapie fisiche che aiutano a ridurre il dolore quali tens, laserterapia, tecar e vibra.

Ernia del disco lombare

Il disco intervertebrale è come un cuscinetto ammortizzatore interposto tra due vertebre contigue. È composto da un nucleo polposo centrale ricco d’acqua e un rivestimento esterno fibroso che lo contiene chiamato anulus.
Generalmente alterazioni croniche o da sovraccarico, nel tempo possono causare una degenerazione dei tessuti, provocando un rimaneggiamento del nucleo polposo e un cedimento strutturale delle lamine del tessuto fibroso dell’anulus.
Si parla quindi di bulging o protrusione discale se il nucleo polposo spinge posteriormente e le fibre dell’anello fibroso sono leggermente sfiancate. Se invece l’anulus, in seguito a sollecitazioni maggiori, si lacera, il materiale contenuto all’interno del disco fuoriesce spingendosi lateralmente, verso il basso e più raramente verso l’alto e si parlerà di ernia del disco lombare. Questi fenomeni possono insorgere sia per sforzi bruschi che per posizioni viziate protratte, per esempio davanti al computer o al televisore.
Dal punto di vista sintomatologico possono essere o non essere presenti deficit neurologici (sciatalgia, cruralgia, formicolio ai piedi, sensazione di ridotta sensibilità tattile e/o dolorifica agli arti inferiori, disturbi di motilità e trofismo degli arti inferiori, riflessi alterati agli arti inferiori) a seconda che vi sia o meno la compressione di una radice nervosa o del midollo spinale. È tipico in molti soggetti il coinvolgimento del nervo sciatico con dolore irradiato ai glutei e dietro la gamba. In questi casi è necessario valutare quali sono le strutture anatomiche coinvolte effettuando un confronto con l’esame clinico per stabilire il miglior percorso terapeutico.
Nella maggior parte dei casi il trattamento è di tipo conservativo fisioterapico, nei casi in cui sia molto importante la compromissione radicolare o midollare il trattamento di scelta invece sarà chirurgico.

Riabilitazione per ernia del disco lombare
Il paziente con ernia del disco lombare racconta che in passato ha già avuto qualche episodio di lombalgia e che dopo uno sforzo (talvolta uno starnuto o una flessione del busto) comincia ad avere dolore a una gamba, formicolio, irrigidimento muscolare: tutti sintomi che indicano un coinvolgimento della radice nervosa.
In questi casi il primo obiettivo della rieducazione è quello di ridurre il dolore e recuperare la mobilità. In questa fase della terapia sono importanti la massoterapia decontratturante per i paravertebrali e i flessori, la terapia fisica non invasiva come tens, laser, tecar e vibra, l’allungamento della catena muscolare anteriore con esercizi selettivi per gli ischiocrurali e soprattutto il recupero posturale globale preferibilmente in vasca riabilitativa, con esercizi in scarico per stimolare il controllo della posizione del bacino e delle gambe e recuperare in sicurezza il movimento quotidiano.
In seguito, si potrà procedere al recupero muscolare in palestra con esercizi di tonificazione selettiva degli addominali, del quadricipite, dei glutei e dei muscoli del core con l’obiettivo di creare un corsetto naturale che stabilizzi la colonna vertebrale durante i movimenti.

Distorsione al ginocchio

La distorsione al ginocchio è tra gli infortuni più frequenti nella traumatologia dello sport, soprattutto in alcune discipline quali il calcio, la pallacanestro, lo sci e la pallavolo.
Se in seguito ad un trauma con rotazione del ginocchio questo risulta gonfio e dolente, in attesa di una visita medica, è opportuno applicare il ghiaccio e proteggere l’articolazione dal carico usando le stampelle.
La valutazione del medico è di fondamentale importanza, anche se in fase acuta il dolore e le reazioni in difesa rendono difficili le manovre che normalmente si adottano per svelare una lesione legamentosa del ginocchio.
Per impostare un adeguato percorso riabilitativo, oltre ad un’accurata prima visita, il medico potrebbe prescrivere anche alcuni esami strumentali come la risonanza magnetica (RMN) o la TAC.

Riabilitazione per distorsione al ginocchio
Quando si subisce una distorsione al ginocchio, bisogna immediatamente applicare il protocollo RICE:
• Rest: tenere a “riposo” il ginocchio ed immobilizzarlo
• Ice: applicare del ghiaccio sull’articolazione per non più di 20-30 minuti
• Compression: Comprimere il ginocchio con una fasciatura elastica
• Elevation: Elevare l’articolazione mettendola in scarico
In questo modo si può riuscire tempestivamente a fermare il sanguinamento responsabile del gonfiore e del dolore locale. Dopo una prima fase di riposo e ghiaccio, il percorso riabilitativo della distorsione di ginocchio, non essendoci problemi articolari, prevede un lavoro di potenziamento muscolare del quadricipite, flessori, polpaccio che contribuiranno a stabilizzare maggiormente l’articolazione unito ad un lavoro propriocettivo e recupero della gestualità in campo riducendo il rischio di nuove distorsioni ed evitando recidive (prevenzione).

Tendinopatia rotulea

La tendinopatia rotulea è una patologia molto frequente che clinicamente si rileva con dolore al polo inferiore della rotula e tumefazione dolente alla digitopressione.
Il dolore insorge gradualmente, si riduce con il riscaldamento ma progressivamente limita il movimento. Può essere la conseguenza di un evento acuto scatenato da un sovraccarico funzionale o da microtraumi ripetuti nel tempo.
Il trattamento della tendinopatia rotulea, inizialmente conservativo è sempre molto delicato e le possibilità di successo dipendono dalla gravità del quadro patologico e dal tempo di insorgenza della sintomatologia. Il trattamento riabilitativo prevede all’inizio un riposo attivo, riducendo cioè il carico del lavoro e il controllo del dolore attraverso terapie fisiche (laser, onde d’urto, ultrasuoni, tecar e vibra). Molto importante il massaggio decontratturante del quadricipite, riflessogeno del retto femorale e il massaggio trasverso profondo del tendine rotuleo unito ad una buona esecuzione di esercizi di stretching della catena anteriore e posteriore per allentare le tensioni sul tendine stesso. In fase subacuta si può iniziare il rinforzo muscolare ed elastico del quadricipite sia in palestra che in vasca riabilitativa.

Sindrome di osgood-schlatter

L’apofisite tibiale anteriore detta anche sindrome di Osgood-Schlatter è più frequente negli atleti adolescenti maschi (10-13 anni) che spesso sono cresciuti rapidamente.
È attribuibile ad un sovraccarico abnorme sulla cartilagine in accrescimento che causa delle microfratture del nucleo osseo apofisario.
Il quadro clinico legato alla sindrome di Osgood-Schlatter è caratterizzato da dolore localizzato sulla tuberosità anteriore della tibia che viene esacerbato dall’attività fisica e recede con il riposo; localmente è presente una tumefazione dolente alla digitopressione.
La diagnosi è clinica e supportata da esami strumentali quali una radiografia per valutare eventuali calcificazioni o problemi inserzionali.
Il trattamento indicato per la sindrome di Osgood-Schlatter è il riposo. Nei periodi di riacutizzazione del male è necessario che i ragazzi interrompano l’attività fisica. Il quadro tende a risolversi con la fine dell’accrescimento.

Riabilitazione per Sindrome di Osgood-Schlatter
Il trattamento riabilitativo è utile ed è mirato al controllo del dolore, attraverso l’utilizzo di ghiaccio più volte al giorno e di terapie fisiche come ionoforesi, laserterapia, massaggio e stretching: in questa prima fase è utile ridurre il carico sulla gamba, quindi è indicata la rieducazione in piscina.
Successivamente il trattamento prevede di eliminare le tensioni muscolari del quadricipite che possono aver causato microtraumi in quella zona del ginocchio attraverso il massaggio decontratturante e lo stretching specifico accompagnato da un rinforzo muscolare volto ad elasticizzare il muscolo ed esercitazioni per migliorare la coordinazione intermuscolare tra quadricipite stesso e i flessori.

Rottura del tendine rotuleo

La rottura del tendine rotuleo si presenta più spesso in soggetti giovani e sportivi con tendinosi degenerative e in soggetti anziani che affrontano sforzi improvvisi senza avere una adeguata preparazione.
Le rotture dei tendini possono essere parziali o totali.
Al momento dell’infortunio si avverte uno schiocco al ginocchio con la sensazione di qualcosa che “va fuori posto”. Nella maggior parte dei casi al dolore si associano anche gonfiore e difficoltà ad estendere il ginocchio.
L’ecografia è solitamente sufficiente per una conferma diagnostica; la risonanza magnetica (RMN) può dare indicazioni più dettagliate in caso di lesione parziale.
In caso di lesione parziale del tendine rotuleo e quadricipitale il trattamento può essere conservativo, prima con immobilizzazione e deambulazione con stampelle per quattro settimane, poi con progressivi esercizi di rinforzo muscolare. Per ottenere risultati si devono attendere almeno quattro mesi perché il processo di guarigione, cicatrizzazione e riorganizzazione del tessuto tendineo è lungo.
In caso di lesione totale dei tendini rotuleo e quadricipitale il percorso più indicato è quello dell’intervento chirurgico.
La tenorrafia quadricipitale è l’intervento chirurgico che si rende necessario in seguito ad un evento acuto quale la rottura traumatica o degenerativa, parziale o completa, del tendine quadricipitale o del tendine rotuleo.
La tecnica della tenorrafia quadricipitale consiste nella sutura con fili non riassorbibili del tendine lesionato associato a rinforzo con tessuto biologico autologo (il prelievo è solitamente effettuato o dalla porzione distale della bandeletta ileo-tibiale o dal tendine quadricipitale), spesso associato ad un cerchiaggio rotuleo necessario per proteggere le suture.
La chirurgia è complessa e se non è ben eseguita può portare ad avere una rotula alta con conseguente deficit della flessione.
Dal punto di vista della riabilitazione post intervento bisogna considerare che i primi 2 mesi post-operatori sono il periodo critico e che bisogna essere molto cauti e progressivi nel recupero della flessione e nel rinforzo del quadricipite.

Sindrome femoro-rotulea

La sindrome femoro-rotulea è costituita da un insieme di alterazioni morfofunzionali che determinano l’insorgenza di dolore anteriore di ginocchio.
La rotula scorre all’interno di una gola ad essa congruente, scavata nella parte distale del femore; le superfici ossee scivolano l’una sull’altra grazie al reciproco rivestimento cartilagineo e sono guidate dalla tensione di alcuni gruppi muscolari, del tendine rotuleo e dei legamenti alari.
Basta un minimo disturbo, un’alterazione di forma o di funzione di una di queste componenti, perché insorga un aumento della pressione su una parte dell’articolazione femoro-rotulea con conseguente insorgenza di dolore o, peggio ancora, di instabilità fino alla vera e propria fuoriuscita della rotula dalla sua sede durante i dolorosissimi episodi di lussazione della rotula.
La diagnosi si avvale del supporto di radiografie, TAC o risonanza magnetica (RMN).
La maggior parte dei casi affetti da sindrome femoro-rotulea trae beneficio da un personalizzato programma riabilitativo, mentre la soluzione chirurgica viene riservata solo ai casi più gravi.
La riabilitazione della sindrome femoro-rotulea inizia in palestra, ma continua nella vita di tutti i giorni. Infatti, è proprio nella vita quotidiana che bisogna mettere in atto i piccoli accorgimenti per il mantenimento di una funzionalità completa.
L’unica vera indicazione al trattamento chirurgico è costituita da un importante instabilità rotulea, caratterizzate dalla lussazione abituale della rotula o dalla sua stabile malposizione.

RIALLINEAMENTO ROTULEO
Esistono vari tipi di soluzioni chirurgiche di riallineamento rotuleo. Quelle più frequentemente usate sono tre.
• Lateral release
Sezione del legamento alare esterno, effettuato artroscopicamente per medializzare la rotula. È un intervento la cui efficacia è dubbia, ma ha il vantaggio di una modestissima aggressività chirurgica con rapida ripresa.
In caso di lateral release puoi iniziare la riabilitazione dopo pochi giorni dall’intervento.
• Riallineamento distale
È l’intervento più utilizzato per le instabilità marcate caratterizzate da episodi recidivanti di lussazione rotulea. Consiste nella trasposizione del tendine rotuleo. Richiede un periodo di parziale immobilizzazione in tutore.
Nel riallineamento distale puoi iniziare precocemente la riabilitazione rimuovendo il tutore per la durata della seduta.
• Riallineamento prossimale
È impiegato negli adolescenti con instabilità rotulea grave per evitare di danneggiare il tessuto osseo immaturo. Consiste nell’avanzamento e plicatura del vasto mediale.
Il riallineamento prossimale richiede da quattro a sei settimane circa di immobilizzazione. Per consentire la tenuta delle suture è consigliabile invece iniziare la riabilitazione solo dopo il periodo di immobilizzazione.

Rottura del tendine d’achille

Il tendine d’Achille è il tendine più voluminoso e robusto del nostro organismo.
Sollecitazioni ripetitive negli atleti, o il semplice avanzare dell’età nei sedentari, possono portare ad alterazioni della struttura tendinea fino a rotture parziali o complete del tendine stesso.
La rottura del tendine d’Achille è la conseguenza di una tendinite cronica spesso non riconosciuta o sottovalutata. Colpisce soprattutto i saltatori, i corridori, i calciatori ed i tennisti, realizzandosi come conseguenza di una brusca contrazione muscolare.
La sintomatologia è caratterizzata da un dolore acuto e improvviso nella regione posteriore della gamba, spesso associato a un rumore di “schiocco”. Probabilmente hai avuto la sensazione di aver ricevuto una frustata o un calcio da un avversario. La rottura del tendine d’Achille genera una impotenza funzionale immediata tale da impedire la deambulazione.
La diagnosi si basa essenzialmente sul quadro clinico: a volte è presente un vallo ben evidente in corrispondenza della rottura. Il sospetto diagnostico viene spesso confermato da un esame ecografico che evidenzia molto bene l’interruzione delle fibre tendinee e permette di distinguere tra le rotture totali e quelle subtotali.
Per trattare la rottura del tendine d’Achille è indispensabile intervenire chirurgicamente.

Tenorrafia achillea
Esistono numerosi tipi di sutura del tendine d’Achille. Questo tipo di intervento viene detto tenorrafia achillea e viene oggi eseguita con tecniche che prevedono piccolissime incisioni, tali da ovviare ai disturbi di cicatrizzazione legati alle incisioni molto lunghe, ed in grado di ridurre i tempi di recupero.
L’intervento di tenorrafia achillea viene di solito seguito dall’immobilizzazione con tutore in equinismo per 2-3 settimane e un tutore in flessione neutra per 4 settimane con carico permesso dopo la 4° settimana dall’intervento chirurgico.
Le terapie riabilitative cominciano in genere dalla 4°-5° settimana dall’intervento e si svolgono inizialmente alternando piscina e palestra.

Riabilitazione per rottura del tendine d’Achille
Dopo essere stato sottoposto ad un intervento di tenorrafia il paziente che ha subito la rottura totale del tendine d’Achille si presenta con un tutore bloccato in equinismo a 20° dopo trenta giorni. Dopo il primo mese è possibile effettuare una visita medica accurata e iniziare il programma riabilitativo.
Il primo obiettivo è quello di ridurre la flogosi e il dolore con massoterapia drenante, ultrasuoni ad immersione, laser e di recuperare gradualmente l’articolarità e la corretta deambulazione: per il mese successivo è possibile concedere il carico ma solo con tutore tipo walker; in questa fase sono utili esercitazioni in piscina di mobilizzazione passiva e attiva e allungamento della catena posteriore per permettere un più rapido recupero della mobilità e una più sicura ripresa dello schema del passo.
Ottenuto il carico completo dal chirurgo è possibile progredire nel programma terapeutico in palestra con esercizi di rinforzo concentrico ed eccentrico progressivo dei gemelli, del soleo, dei tibiali, peronei, intrinseci del piede, quadricipite sia a corpo libero che con attrezzi ed esercitazioni aerobiche su bici, ellittica, tapis roullant, per il recupero metabolico; è la fase più lunga ed è importante gestire bene i periodi di carico e scarico di forza per permettere di arrivare al test isocinetico con una differenza di forza tra i due arti < del 20%.
Superato il test, l’ultimo obiettivo è quello del recupero del gesto atletico in campo dove vengono effettuate esercitazioni propedeutiche al recupero della corsa rettilinea, in curva, balzi, percorsi e fondamentali tecnici dello sport praticato.
È fondamentale prima della dimissione aver recuperato il 100% di forza al test isocinetico e aver recuperato l’attività metabolica ottimale misurata con un test di soglia.

Lesioni cartilaginee del ginocchio

L’insorgenza di lesioni cartilaginee del ginocchio è frequente per un meccanismo di usura determinato dalla ripetizione di alcuni movimenti, o in seguito a traumi veri e propri. Un’erosione della cartilagine, più o meno profonda, viene chiamata condropatia e provoca un alterato scorrimento dei capi ossei che si traduce in dolore, gonfiore e difficoltà di movimento.
Per lesioni cartilaginee del ginocchio più lievi è indicato il trattamento conservativo mentre per i casi più severi viene scelto quello chirurgico. Lo scopo terapeutico è di interrompere il circolo vizioso che, mediante l’aumento progressivo dell’attrito, porta alla degenerazione articolare. Il programma riabilitativo viene personalizzato in base alla sede e all’entità della lesione, con l’obiettivo di ridurre il dolore con terapie fisiche (laser, ionoforesi, tens, tecar e vibra) e ripristinare il tono-trofismo di particolari gruppi muscolari che svolgono un importante ruolo protettivo.
Nella riabilitazione post intervento è fondamentale svolgere un adeguato protocollo riabilitativo che permetta di recuperare il massimo nel rispetto dei tempi biologici di guarigione propri del tessuto cartilagineo. La riabilitazione ha come obiettivi la riduzione del dolore e del gonfiore con terapie fisiche (ionoforesi, laser ad alta potenza, tens, tecar e vibra), recupero dell’articolarità, della forza muscolare e della coordinazione neuromotoria alternando palestra e vasca riabilitativa. In palestra vengono alternate terapie fisiche e manuali, esercizi di rinforzo e di propriocezione. In vasca il paziente comincia a recuperare lo schema del passo e i movimenti dell’articolazione operata.

Sindrome della bandelletta ileo-tibiale

La sindrome della bandelletta ileo-tibiale si presenta con un quadro infiammatorio cronico che interessa l’ultimo tratto della fascia lata dove può verificarsi un attrito meccanico che genera uno stato infiammatorio doloroso che si acutizza nei movimenti di flesso-estensione del ginocchio. Alcuni fattori anatomici come il varismo di ginocchio e l’ipoestensibilità della catena muscolare posteriore, possono favorire l’insorgenza della sindrome. I sintomi principali consistono nel dolore laterale di ginocchio a livello dell’inserzione della bandelletta. Il trattamento iniziale della sindrome della bandelletta ileo-tibiale è sempre conservativo e consiste nell’alternarsi, su indicazione del medico specialista, di terapie fisiche e manuali. Il tutto è incentrato sulla risoluzione dell’infiammazione attraverso l’utilizzo di terapie fisiche come ultrasuoni, laser ad alta potenza, ionoforesi e tecar. Massaggio decontratturante e stretching saranno necessari per ridurre la tensione della parte esterna della coscia e della gamba. Superata la fase acuta il trattamento prevede il rinforzo muscolare, sia in palestra che in vasca riabilitativa, dei muscoli della parte mediale del ginocchio per migliorare la ripartizione del carico a livello del quadricipite e il rinforzo dei fasci muscolari posteriori.

Frattura da stress

Il trattamento della frattura da stress, di tipo conservativo, si sviluppa nelle tradizionali 5 fasi, mettendo immediatamente l’atleta a riposo dalle 2 alle 6 settimane: scarico con stampelle ed eventualmente apparecchio gessato nei casi più gravi.
Nella frattura da stress le terapie fisiche possono giovarsi dei campi elettromagnetici pulsati.
Anche le onde d’urto possono accelerare i tempi di guarigione. Con la progressiva scomparsa del dolore, il trattamento potrà essere effettuato in piscina (in scarico) per recuperare il tono muscolare, la propriocettività e la resistenza aerobica di base.
Alla ripresa dell’attività, fondamentale è l’analisi e la correzione dei fattori di rischio, come la scelta dell’equipaggiamento sportivo (scarpe).
Si raccomanda sempre l’esecuzione di un adeguato riscaldamento prima di cominciare qualsiasi disciplina sportiva.

Frattura di tibia e perone

Una frattura avviene quando la forza applicata è di un’intensità tale da superare la resistenza dell’osso.
In base alla sede della frattura si potranno distinguere 3 diversi distretti:
• terzo prossimale;
• terzo medio;
• terzo distale.
In caso di frattura di tibia e perone tale distinzione è importante sia dal punto di vista riabilitativo che dal punto di vista prognostico, in quanto nelle fratture del terzo prossimale della tibia può essere coinvolta l’articolazione del ginocchio, mentre in quelle del terzo distale di tibia e/o perone potrebbe essere coinvolta l’articolazione tibio-tarsica.
Queste fratture interessano pazienti che hanno subito un incedente stradale oppure un trauma durante la pratica sportiva.
I sintomi principali di una frattura di tibia e perone sono il dolore, che può essere presente e con localizzazione diversa a seconda della sede della frattura; in realtà può essere irradiato a tutta la gamba; il gonfiore, in genere diffuso; è generalmente presente limitazione funzionale ed ematoma. La frattura meta-diafisaria tibiale in genere non comporta grosse limitazione del range articolare.
La conferma diagnostica si avvale di RX convenzionali nelle proiezioni standard per valutare la formazione del callo osseo; ecografia (in quei casi in cui si sospetta una tendinopatia associata, o per il sospetto di una raccolta ematica organizzata che potrebbe rallentare o ostacolare il progressivo recupero). TAC o RMN solo per indagare problematiche specifiche, cosi come la EMG in quei casi in cui si sospetta una lesione o sofferenza nervosa.
Nel caso di fratture tibiali trattate conservativamente (apparecchio gessato) si può iniziare con il programma riabilitativo. Questi sono i casi, ad esempio, delle fratture del terzo distale se la caviglia è stabile, la frattura non è scomposta o è lievemente scomposta (meno di 2 mm).
La frattura del perone può essere associata a frattura della tibia (frattura biossea) oppure essere isolata.
Nelle fratture peroneali da trauma indiretto sono frequenti le lesioni della tibio-tarsica. Nel caso di fratture composte ed isolate, con buon allineamento dei capi ossei ed assenza di lesioni legamentose può essere effettuato un trattamento conservativo con apparecchio gessato, seguito da almeno 3 mesi di rieducazione.
Il trattamento delle fratture peroneali associate a fratture tibiali segue quanto detto per queste ultime.
Per tornare all’attività sportiva con potenzialità traumatica, sia nel caso di fratture composte che scomposte, occorre che il paziente si doti di tutore su misura in fibra di carbonio.
Nel caso di fratture che necessitano del trattamento chirurgico è necessario un periodo riabilitativo, della durata, genericamente, di 4 mesi.
In caso invece di frattura scomposta del perone, questa si tratta con mezzi di sintesi (placca e viti). Nel caso di associata lesione del legamento deltoideo della caviglia con apertura della pinza malleolare è opportuno un intervento di stabilizzazione articolare, seguito da riabilitazione post-chirurgica e recupero funzionale fino al ritorno allo sport.
Il percorso riabilitativo prevede una prima fase di controllo del dolore e recupero dell’articolarità attiva e passiva dell’anca, del ginocchio e della caviglia, accompagnato da un blando rinforzo muscolare.
Raggiunto l’obiettivo si può iniziare l’attività aerobica e la fase del recupero della forza con esercizi per il gastrocnemio, tibiale anteriore e posteriore, soleo, flessori e estensori e intrinseci del piede, quadricipite, gluteo flessori e muscoli del core; contemporaneamente si possono iniziare esercitazioni di propriocettiva e equilibrio via via più complesse.
Fondamentale è concludere il percorso riabilitativo con l’ultima fase del campo, con esercitazioni ad andature specifiche dello sport praticato e una ripresa graduale e sicura del movimento e del gesto sportivo.

Lesioni muscolari della gamba

Le lesioni muscolari della gamba sono tra i traumi più comuni in quei soggetti che praticano attività sportiva sia in modo amatoriale che agonistico. Possono insorgere a causa di un colpo ricevuto (lesioni da trauma diretto o contusioni) oppure a causa di un movimento errato (lesioni da trauma indiretto).
Le contusioni sono facili da diagnosticare in quanto il soggetto è in grado di riferire immediatamente il momento esatto in cui ha sentito il dolore, perché derivato da un contrasto con un altro soggetto o con un ostacolo. In questi casi, a seconda di quanto il dolore muscolare limita il movimento, la contusione viene definita di grado:
• Lieve, quando il range di movimento è superiore alla metà del normale;
• Moderato, quando il range di movimento è tra la metà e un terzo;
• Severo, quando il range di movimento è inferiore a un terzo del normale.
In questi casi è opportuno il ricorso alle cure nel minor tempo possibile per ridurre i tempi di guarigione.
Più complessa, invece, è la classificazione e la diagnosi dei traumi indiretti.
Se il dolore insorge accompagnato da un aumento diffuso del tono muscolare, come può capitare al termine di un’attività sportiva, non è riferibile ad un preciso momento, non è ben localizzato e il paziente lo indica a mano aperta, su tutto il muscolo, siamo di fronte ad una contrattura muscolare. Se al contrario il dolore è ben individuabile alla palpazione, insorge progressivamente, permette di continuare un’attività motoria anche se con fatica, allora siamo di fronte ad uno stiramento, caratterizzato da assenza di lesione anatomica macroscopica. Anche in questo caso è opportuno il ricorso alle cure nel minor tempo possibile
Le lesioni muscolari della gamba (di primo, secondo e terzo grado) necessitano invece di tempi di recupero più lunghi. In questi casi è sempre presente una lesione anatomica, di gravità variabile. Tale gravità è direttamente proporzionale alla quantità di tessuto interessato, al versamento ematico e al muscolo infortunato.
È difficile non individuare subito una lesione muscolare, perché l’atleta sente un dolore improvviso, acuto, con un specifico riferimento ad un gesto tecnico; l’atleta addirittura può indicare con precisione il punto della lesione.
L’impotenza funzionale è tanto più precoce quanto grave è la lesione.
La diagnosi è essenzialmente clinica ma viene coadiuvata da un esame ecografico effettuato preferibilmente a 24/48 ore dal trauma; l’ecografia viene ripetuta periodicamente durante la riabilitazione per monitorare la guarigione.
Nel trattamento delle lesioni muscolari della gamba è fondamentale l’anamnesi non solo per inquadrare l’infortunio ma anche per capire se vi sono stati altri episodi oltre al primo (recidive) o se si sono già instaurate recidive.
La diagnosi esatta dopo aver effettuato l’ecografia (contrattura, stiramento, strappo di 1°,2° o 3° grado) orienterà la prognosi e l’iter terapeutico.
Una evenienza abbastanza frequente negli sportivi è lo strappo a carico del bicipite femorale. Durante la fase acuta nei primi momenti dopo l’evento traumatico è opportuno arrestare l’emorragia attraverso fasciature compressive e ghiaccio; successivamente dopo l’indagine ecografica e la diagnosi si può iniziare il trattamento riabilitativo controllando il dolore con terapie fisiche come laser, tens, successivamente ultrasuoni, e recuperare l’articolarità attraverso esercizi di allungamento e distensione.
È utile iniziare fin da subito l’attività aerobica consentita senza dolore e progressivamente aumentare l’intensità e la varietà dello stimolo.
Quando l’allungamento risulta ormai negativo e non c’è dolorabilità alla palpazione si può iniziare il recupero muscolare del distretto interessato. Inizialmente si lavora in maniera concentrica, ma fondamentalmente in eccentrica, per elasticizzare la cicatrice e migliorare l’estensibilità muscolare. Contemporaneamente si andranno ad eliminare eventuali compensi attraverso un lavoro di rinforzo muscolare globale dei muscoli del core, del quadricipite, del gluteo e del polpaccio.
Conclusa questa fase, il programma riabilitativo procede con l’esecuzione di movimenti complessi come i cambi di direzione, gli scatti e le frenate: è fondamentale l’attività di prevenzione delle recidive effettuando un programma domiciliare di esercizi per mantenere la funzionalità e l’estensibilità del muscolo.

Lesioni cartilaginee della caviglia

Le lesioni cartilaginee della caviglia si verificano in seguito a traumi distorsivi e sono spesso causa di dolore persistente con conseguente limitazione funzionale. La sede più frequente di lesione è il compartimento mediale.
Probabilmente in passato hai subito numerosi traumi distorsivi che hanno determinato la persistenza di dolore, limitazioni dell’articolarità, gonfiore e limitazione dell’attività sportiva.
Le radiografie di pronto soccorso sono sempre indicative.
La RMN è l’esame elettivo, per constatare fratture osteocondrali con spostamento del frammento.
Il trattamento delle lesioni cartilaginee della caviglia differisce a seconda dell’estensione della lesione. Una volta escluso che la lesione è del 4° livello (lesione con spostamento del frammento dove l’approccio è solo chirurgico), si può procedere con un trattamento riabilitativo.

Fascite plantare

La fascite plantare è una patologia che riguarda la struttura di tessuto connettivo fibroso che origina dalla tuberosità calcaneare e si inserisce sulle teste metatarsali.
Durante la fase di appoggio nel passo e nella corsa la fascia plantare viene stirata in modo significativo e il punto maggiormente sollecitato è la sua inserzione sul calcagno.
Qui può prodursi nel tempo una calcificazione allungata che segue il decorso della fascia e che radiologicamente produce il tipico sperone calcaneare. La presenza dello sperone non è però necessariamente legata alla sintomatologia: ci sono speroni non dolorosi (riscontrati per caso in una radiografia del piede eseguita per altri motivi) e fasciti plantari molto dolorose ma che radiologicamente non hanno prodotto nessun sperone.
La fascite plantare è una patologia molto comune tra gli sportivi che praticano corsa, ballo, tennis, basket e magari hanno sbagliato la progressione dei carichi di lavoro durante l’allenamento.
Si presenta spesso anche tra gli anziani che sono passati da scarpe con un rialzo a scarpe basse, tra chi per lavoro è costretto ad usare scarpe antiinfortunistica, nei pazienti in sovrappeso e tra coloro che hanno un’alterazione anatomica a livello dell’arco plantare (piede cavo rigido, piede piatto).
In linea di massima questa patologia tende a cronicizzare perché viene spesso trascurata dai pazienti per molti mesi e questo contribuisce a rallentarne la guarigione.
La sintomatologia della fascite plantare è caratterizzata da dolore acuto al mattino e nei movimenti a freddo; il dolore tende a migliorare dopo i primi passi e a riacutizzarsi durante la giornata. Può essere presente un gonfiore circoscritto alla zona dolente. Non di rado i muscoli del polpaccio presentano un deficit di forza e di estensibilità.
Per la diagnosi è utile eseguire una radiografia ed eventualmente un’ecografia.
La terapia immediata prevede il riposo sportivo e l’eliminazione dei fattori predisponenti (uso di calzature idonee e calo ponderale). Potrà essere utile l’uso di plantari per correggere eventuali anomalie a carico dell’arco plantare. Spesso la terapia ad onde d’urto si rivela molto efficace nel risolvere il quadro infiammatorio.