Il neuroma di Morton è riconducibile ad un rigonfiamento dei rami del nervo plantare che decorrono tra il IIº e il IIIº e tra il IIIº ed il IVº metatarso.
La compressione del nervo tra le teste metatarsali è determinata dai microtraumi che si verificano durante la deambulazione e dall’utilizzo di scarpe troppo strette.
La sintomatologia legata al Neuroma di Morton è rappresentata da dolore a comparsa improvvisa, spesso paragonata ad una scossa elettrica. Spesso coesistono parestesie sulle due dita interessate.
La diagnosi è essenzialmente clinica ma la conferma può avvenire attraverso un’ecografia o una risonanza magnetica (RMN).
Il trattamento è inizialmente conservativo ma nei casi refrattari si deve ricorrere all’intervento chirurgico che consiste nell’asportazione del neuroma.
Il trattamento della frattura da stress, di tipo conservativo, si sviluppa nelle tradizionali 5 fasi, mettendo immediatamente l’atleta a riposo dalle 2 alle 6 settimane: scarico con stampelle ed eventualmente apparecchio gessato nei casi più gravi.
Nella frattura da stress le terapie fisiche possono giovarsi dei campi elettromagnetici pulsati.
Anche le onde d’urto possono accelerare i tempi di guarigione. Con la progressiva scomparsa del dolore, il trattamento potrà essere effettuato in piscina (in scarico) per recuperare il tono muscolare, la propriocettività e la resistenza aerobica di base.
Alla ripresa dell’attività, fondamentale è l’analisi e la correzione dei fattori di rischio, come la scelta dell’equipaggiamento sportivo (scarpe).
Si raccomanda sempre l’esecuzione di un adeguato riscaldamento prima di cominciare qualsiasi disciplina sportiva.
Una frattura avviene quando la forza applicata è di un’intensità tale da superare la resistenza dell’osso.
In base alla sede della frattura si potranno distinguere 3 diversi distretti:
• terzo prossimale;
• terzo medio;
• terzo distale.
In caso di frattura di tibia e perone tale distinzione è importante sia dal punto di vista riabilitativo che dal punto di vista prognostico, in quanto nelle fratture del terzo prossimale della tibia può essere coinvolta l’articolazione del ginocchio, mentre in quelle del terzo distale di tibia e/o perone potrebbe essere coinvolta l’articolazione tibio-tarsica.
Queste fratture interessano pazienti che hanno subito un incedente stradale oppure un trauma durante la pratica sportiva.
I sintomi principali di una frattura di tibia e perone sono il dolore, che può essere presente e con localizzazione diversa a seconda della sede della frattura; in realtà può essere irradiato a tutta la gamba; il gonfiore, in genere diffuso; è generalmente presente limitazione funzionale ed ematoma. La frattura meta-diafisaria tibiale in genere non comporta grosse limitazione del range articolare.
La conferma diagnostica si avvale di RX convenzionali nelle proiezioni standard per valutare la formazione del callo osseo; ecografia (in quei casi in cui si sospetta una tendinopatia associata, o per il sospetto di una raccolta ematica organizzata che potrebbe rallentare o ostacolare il progressivo recupero). TAC o RMN solo per indagare problematiche specifiche, cosi come la EMG in quei casi in cui si sospetta una lesione o sofferenza nervosa.
Nel caso di fratture tibiali trattate conservativamente (apparecchio gessato) si può iniziare con il programma riabilitativo. Questi sono i casi, ad esempio, delle fratture del terzo distale se la caviglia è stabile, la frattura non è scomposta o è lievemente scomposta (meno di 2 mm).
La frattura del perone può essere associata a frattura della tibia (frattura biossea) oppure essere isolata.
Nelle fratture peroneali da trauma indiretto sono frequenti le lesioni della tibio-tarsica. Nel caso di fratture composte ed isolate, con buon allineamento dei capi ossei ed assenza di lesioni legamentose può essere effettuato un trattamento conservativo con apparecchio gessato, seguito da almeno 3 mesi di rieducazione.
Il trattamento delle fratture peroneali associate a fratture tibiali segue quanto detto per queste ultime.
Per tornare all’attività sportiva con potenzialità traumatica, sia nel caso di fratture composte che scomposte, occorre che il paziente si doti di tutore su misura in fibra di carbonio.
Nel caso di fratture che necessitano del trattamento chirurgico è necessario un periodo riabilitativo, della durata, genericamente, di 4 mesi.
In caso invece di frattura scomposta del perone, questa si tratta con mezzi di sintesi (placca e viti). Nel caso di associata lesione del legamento deltoideo della caviglia con apertura della pinza malleolare è opportuno un intervento di stabilizzazione articolare, seguito da riabilitazione post-chirurgica e recupero funzionale fino al ritorno allo sport.
Il percorso riabilitativo prevede una prima fase di controllo del dolore e recupero dell’articolarità attiva e passiva dell’anca, del ginocchio e della caviglia, accompagnato da un blando rinforzo muscolare.
Raggiunto l’obiettivo si può iniziare l’attività aerobica e la fase del recupero della forza con esercizi per il gastrocnemio, tibiale anteriore e posteriore, soleo, flessori e estensori e intrinseci del piede, quadricipite, gluteo flessori e muscoli del core; contemporaneamente si possono iniziare esercitazioni di propriocettiva e equilibrio via via più complesse.
Fondamentale è concludere il percorso riabilitativo con l’ultima fase del campo, con esercitazioni ad andature specifiche dello sport praticato e una ripresa graduale e sicura del movimento e del gesto sportivo.
Le lesioni muscolari della gamba sono tra i traumi più comuni in quei soggetti che praticano attività sportiva sia in modo amatoriale che agonistico. Possono insorgere a causa di un colpo ricevuto (lesioni da trauma diretto o contusioni) oppure a causa di un movimento errato (lesioni da trauma indiretto).
Le contusioni sono facili da diagnosticare in quanto il soggetto è in grado di riferire immediatamente il momento esatto in cui ha sentito il dolore, perché derivato da un contrasto con un altro soggetto o con un ostacolo. In questi casi, a seconda di quanto il dolore muscolare limita il movimento, la contusione viene definita di grado:
• Lieve, quando il range di movimento è superiore alla metà del normale;
• Moderato, quando il range di movimento è tra la metà e un terzo;
• Severo, quando il range di movimento è inferiore a un terzo del normale.
In questi casi è opportuno il ricorso alle cure nel minor tempo possibile per ridurre i tempi di guarigione.
Più complessa, invece, è la classificazione e la diagnosi dei traumi indiretti.
Se il dolore insorge accompagnato da un aumento diffuso del tono muscolare, come può capitare al termine di un’attività sportiva, non è riferibile ad un preciso momento, non è ben localizzato e il paziente lo indica a mano aperta, su tutto il muscolo, siamo di fronte ad una contrattura muscolare. Se al contrario il dolore è ben individuabile alla palpazione, insorge progressivamente, permette di continuare un’attività motoria anche se con fatica, allora siamo di fronte ad uno stiramento, caratterizzato da assenza di lesione anatomica macroscopica. Anche in questo caso è opportuno il ricorso alle cure nel minor tempo possibile
Le lesioni muscolari della gamba (di primo, secondo e terzo grado) necessitano invece di tempi di recupero più lunghi. In questi casi è sempre presente una lesione anatomica, di gravità variabile. Tale gravità è direttamente proporzionale alla quantità di tessuto interessato, al versamento ematico e al muscolo infortunato.
È difficile non individuare subito una lesione muscolare, perché l’atleta sente un dolore improvviso, acuto, con un specifico riferimento ad un gesto tecnico; l’atleta addirittura può indicare con precisione il punto della lesione.
L’impotenza funzionale è tanto più precoce quanto grave è la lesione.
La diagnosi è essenzialmente clinica ma viene coadiuvata da un esame ecografico effettuato preferibilmente a 24/48 ore dal trauma; l’ecografia viene ripetuta periodicamente durante la riabilitazione per monitorare la guarigione.
Nel trattamento delle lesioni muscolari della gamba è fondamentale l’anamnesi non solo per inquadrare l’infortunio ma anche per capire se vi sono stati altri episodi oltre al primo (recidive) o se si sono già instaurate recidive.
La diagnosi esatta dopo aver effettuato l’ecografia (contrattura, stiramento, strappo di 1°,2° o 3° grado) orienterà la prognosi e l’iter terapeutico.
Una evenienza abbastanza frequente negli sportivi è lo strappo a carico del bicipite femorale. Durante la fase acuta nei primi momenti dopo l’evento traumatico è opportuno arrestare l’emorragia attraverso fasciature compressive e ghiaccio; successivamente dopo l’indagine ecografica e la diagnosi si può iniziare il trattamento riabilitativo controllando il dolore con terapie fisiche come laser, tens, successivamente ultrasuoni, e recuperare l’articolarità attraverso esercizi di allungamento e distensione.
È utile iniziare fin da subito l’attività aerobica consentita senza dolore e progressivamente aumentare l’intensità e la varietà dello stimolo.
Quando l’allungamento risulta ormai negativo e non c’è dolorabilità alla palpazione si può iniziare il recupero muscolare del distretto interessato. Inizialmente si lavora in maniera concentrica, ma fondamentalmente in eccentrica, per elasticizzare la cicatrice e migliorare l’estensibilità muscolare. Contemporaneamente si andranno ad eliminare eventuali compensi attraverso un lavoro di rinforzo muscolare globale dei muscoli del core, del quadricipite, del gluteo e del polpaccio.
Conclusa questa fase, il programma riabilitativo procede con l’esecuzione di movimenti complessi come i cambi di direzione, gli scatti e le frenate: è fondamentale l’attività di prevenzione delle recidive effettuando un programma domiciliare di esercizi per mantenere la funzionalità e l’estensibilità del muscolo.
Le lesioni muscolari della coscia sono tra i traumi più comuni in medicina dello sport (dal 10% al 30% di tutti gli infortuni sportivi).
Le lesioni muscolari della coscia possono insorgere o a causa di un colpo ricevuto (lesione da trauma diretto o contusioni) o a causa di un movimento errato (lesione da trauma indiretto).
Le contusioni sono facilissime da diagnosticare, perché è in grado di riferire immediatamente il momento esatto in cui ha sentito il dolore, perché derivato da un contrasto con l’avversario o con un ostacolo.
In questi casi, a seconda di quanto il dolore muscolare limita il movimento, la contusione viene definita di grado lieve, moderato o severo.
In questi casi prima si inizia il percorso terapeutico, più veloce sarà la remissione dal danno.
Più complessa è la classificazione e la diagnosi dei traumi indiretti.
Se il dolore insorge accompagnato da un aumento diffuso del tono muscolare, solitamente al termine dell’attività sportiva, non è riferibile a un preciso momento di gioco, non è ben localizzato e il paziente lo indica a mano aperta, su tutto il muscolo, siamo di fronte a una contrattura muscolare.
Se al contrario il dolore è ben individuabile alla palpazione, insorge progressivamente durante l’attività sportiva, permette di continuare a giocare anche se con fatica, allora siamo di fronte a uno stiramento, caratterizzato da assenza di lesione anatomica macroscopica. Anche in questo caso prima si comincia il trattamento, prima si guarisce.
Le lesioni o strappi muscolari (di primo, secondo e terzo grado) necessitano invece di tempi di recupero più lunghi. In questi casi è sempre presente una lesione anatomica, di gravità variabile. Tale gravità è direttamente proporzionale alla quantità di tessuto interessato, al versamento ematico e al muscolo infortunato.
È difficile non individuare subito una lesione muscolare, perché l’atleta sente un dolore improvviso, acuto, con un specifico riferimento a un gesto tecnico; l’atleta addirittura può indicare con precisione il punto della lesione.
L’impotenza funzionale è tanto più precoce quanto grave è la lesione.
La diagnosi di una lesione muscolare è essenzialmente clinica ma viene coadiuvata da un esame ecografico effettuato preferibilmente a 24/48 ore dal trauma; l’ecografia viene ripetuta periodicamente durante la riabilitazione per monitorare la guarigione.
Il trattamento deve tener conto del grado, della sede e del tipo di paziente.
Le lesioni muscolari della coscia viene spesso più “bistrattata” che trattata. Proprio per questo abbiamo definito dei protocolli che tengono nella giusta considerazione il tipo di lesione, la sua sede e il tipo di paziente. Il nostro protocollo riabilitativo prevede un monitoraggio costante sia clinico che ecografico, proprio perché il destino delle lesioni muscolari dipende non soltanto dal grado e dalla sede della lesione, ma anche dagli errori di trattamento.
Riabilitazione per lesioni muscolari della coscia
Nel trattamento di lesioni muscolari della coscia è fondamentale l’anamnesi non solo per inquadrare l’infortunio ma anche per capire se vi sono stati altri episodi oltre al primo (recidive) o se si sono già instaurate recidive.
La diagnosi esatta dopo aver effettuato l’ecografia (contrattura, stiramento, strappo di 1°, 2° o 3° grado) orienterà la prognosi e l’iter terapeutico. Sarà inoltre importante valutare fattori predisponenti (ipoestensibilità a livello di altri gruppi muscolari, squilibri, blocchi vertebrali, sovraccarichi funzionali), positività ai test chinesiologici per patologie malocclusali.
In questa sede ci occupiamo del trattamento dello strappo del bicipite femorale, evenienza abbastanza frequente negli sportivi.
Durante la fase acuta nei primi momenti dopo l’evento traumatico è opportuno arrestare l’emorragia attraverso fasciature compressive e ghiaccio; successivamente dopo l’indagine ecografica e la diagnosi si può iniziare il trattamento riabilitativo controllando il dolore con terapie fisiche come laser, tens endorfinica e successivamente ultrasuono, e recuperare l’articolarità (negativizzare lo stretching) attraverso esercizi di allungamento e distensione.
È utile iniziare fin da subito l’attività aerobica consentita senza dolore e progressivamente aumentare l’intensità e la varietà dello stimolo.
Quando lo stretching è negativo e non c’è dolorabilità alla palpazione si può iniziare il recupero muscolare del distretto interessato dapprima in concentrica ma fondamentalmente in eccentrica per elasticizzare la cicatrice e migliorare l’estensibilità muscolare; contemporaneamente si andranno a eliminare eventuali compensi attraverso un lavoro di rinforzo muscolare globale dei muscoli del core, del quadricipite, del gluteo e del polpaccio.
Conclusa questa fase si deve necessariamente concludere il programma riabilitativo in campo per ritornare alla corsa e testare movimenti complessi come i cambi di direzione, gli scatti e le frenate: è fondamentale l’attività di prevenzione delle recidive effettuando un programma domiciliare di esercizi per mantenere la funzionalità e l’estensibilità del muscolo.
La rottura del legamento crociato anteriore (LCA) è molto frequente specie in chi pratica sport di alto impatto come il calcio, lo sci, il volley e il basket.
Il quadro tipico della rottura del legamento crociato anteriore prevede un dolore intenso, gonfiore molto marcato che insorge rapidamente e sensazione di cedimento con importante limitazione funzionale.
La diagnosi si basa sul racconto del paziente, sull’esame clinico per valutare la stabilità passiva del ginocchio e su esami strumentali come la risonanza magnetica (RMN) per valutare anche eventuali lesioni associate a carico delle strutture adiacenti al legamento.
Nel caso di rottura del legamento crociato anteriore (LCA), la scelta tra il percorso conservativo o l’intervento chirurgico è complessa e deve tener conto di numerosi elementi: l’età del paziente, il grado di instabilità, la presenza o meno di lesioni associate e il livello di attività sportiva.
In tutti i casi è fondamentale seguire un appropriato ciclo di riabilitazione.
Le tecniche chirurgiche utilizzate più frequentemente per la ricostruzione del legamento crociato anteriore (LCA) sono sostanzialmente 3:
• Ricostruzione con tendini del semitendinoso (ST) e gracile (GR)
• Ricostruzione con tendine rotuleo
• Ricostruzione con allograft (tendine da donatore)
La ricostruzione LCA con tendini del semitendinoso e gracile è ormai la più diffusa, prevede l’utilizzo dei tendini di due muscoli flessori mediali di coscia che vengono poi fatti passare attraverso un tunnel osseo in articolazione.
L’intervento è effettuato in artroscopia.
Nella fase riabilitativa bisognerà rispettare i tempi di guarigione dei muscoli flessori della coscia da cui è stato effettuato il prelievo.
La ricostruzione LCA con tendine rotuleo prevede l’espianto del terzo centrale del tendine rotuleo attraverso una cicatrice mediana di circa 5 cm e poi il suo inserimento in articolazione attraverso un tunnel osseo sotto guida artroscopica.
Questo tipo di intervento tende ad indebolire l’apparato estensore del ginocchio e pertanto carichi eccessivi in riabilitazione possono causare fastidiose tendinopatie a carico del tendine rotuleo e del tendine quadricipitale ritardando i tempi di recupero.
La ricostruzione LCA con allograft (tendine da donatore) è un innesto ottenuto da un tendine d’Achille o rotuleo da donatore. L’intervento ha il vantaggio di non prevedere il prelievo di tendini del paziente, evitando così di indebolire i flessori di coscia o il quadricipite come nei precedenti due interventi.
Riabilitazione per rottura del legamento crociato anteriore (LCA)
Il trattamento della lesione del legamento crociato anteriore (LCA) può essere di due tipi: conservativo e chirurgico, anche se la stragrande maggioranza dei pazienti propende per la via chirurgica per i problemi di instabilità e di artrosi precoce derivanti dalla rottura. La tecnica chirurgica più utilizzata è quella che usa come neolegamento il tendine del semitendinoso e gracile della stessa gamba.
La riabilitazione in seguito alla ricostruzione del legamento crociato anteriore inizia già in seconda giornata in ospedale o a domicilio.
A seconda delle equipe ortopediche viene consigliato o meno un tutore nel post-operatorio. Quasi sempre l’uso di stampelle viene protratto per circa 3 settimane.
Il trattamento post chirurgico prevede una prima fase di controllo del gonfiore (attraverso terapie fisiche strumentali quali la crioterapia o la tecarterapia) e recupero dell’articolarità (in primo luogo l’estensione) e di ripresa dello schema del passo, essenzialmente svolta in piscina. Parallelamente si può iniziare precocemente la fase di recupero della forza dei quadranti d’anca, gluteo (aiutano la deambulazione) del quadricipite, in catena cinetica chiusa e successivamente aperta (il vasto mediale è il muscolo che si atrofizza maggiormente dopo intervento, quindi è necessario un suo completo recupero) flessori (mediali) adduttori e intrarotatori di ginocchio (che hanno subito il prelievo biologico e quindi indeboliti). Accanto all’ esercizio terapeutico svolto in palestra il recupero muscolare può essere coadiuvato dall’utilizzo dell’elettroterapia o della vibra.
Per quanto riguarda gli atleti agonisti il percorso terapeutico viene completato sul campo per il recupero della gestualità specifica.
La rottura dei legamenti collaterali (LCM, LCL) si verifica solitamente quando la gamba viene sollecitata verso l’interno (in valgo) o verso l’esterno (in varo).
È particolarmente frequente perché questi movimenti anomali si verificano in molte attività sportive.
La rottura dei legamenti collaterali può essere di 1°,2° e 3°grado: più intenso è stato il meccanismo traumatico più grave sarà la lesione.
L’esame obiettivo può essere sufficiente per stabilire una diagnosi corretta anche se talvolta è indicata l’esecuzione di un’ecografia per valutare il decorso del legamento o di una RMN per valutare le eventuali lesioni associate.
La scelta del trattamento conservativo piuttosto che quello chirurgico dipenderà dal grado della lesione di legamenti crociati collaterali (LCM, LCL).
Nella fase iniziale è comunque fondamentale l’utilizzo di una ginocchiera e di stampelle in quanto i legamenti collaterali, contrariamente ai legamenti crociati, vanno incontro spontaneamente ad un processo di cicatrizzazione, favorito in un primo periodo dall’immobilizzazione. La rigidità del ginocchio va comunque prevenuta rimuovendo il tutore appena possibile ed iniziando precocemente il lavoro in piscina con l’acqua alta. Nel programma riabilitativo verranno inoltre inseriti esercizi specifici per evitare stress al legamento danneggiato e favorire l’orientamento corretto della cicatrizzazione ed il recupero completo della funzione del ginocchio.
In rari casi il medico consiglierà un intervento chirurgico per riparare il legamento collaterale danneggiati.
L’intervento consiste fondamentalmente nella sutura del legamento interessato con fili non riassorbibili e tensionamento con cambra.
Nell’immediato periodo post-operatorio il ginocchio viene tenuto immobilizzato in una ginocchiera bloccata a 20° di flessione per 3 settimane e proscrizione del carico per 3 settimane.
Il trattamento riabilitativo sarà svolto inizialmente solo in palestra. Una volta rimosso il tutore si inizierà un carico parziale e progressivo e verrà collaudata l’attività in piscina.
A circa 4 mesi dall’intervento avviene la dimissione e la ripresa dell’attività sportiva.
Infine ti potrà essere consigliata la rimozione della cambra.
Durante la riabilitazione il dolore permane a lungo per cui è molto importante informare il paziente ed effettuare una lunga e progressiva ripresa del gesto sportivo nella fase della riabilitazione sul campo per gli atleti agonisti.
La frattura del piatto tibiale è un trauma piuttosto frequente e interessa l’area del ginocchio, nella porzione prossimale della tibia.
Può variare in base alla serietà dell’infortunio, da minime depressioni del piatto tibiale o piccoli distacchi che non richiedono trattamenti chirurgici, a quadri complessi con dislocazione dei frammenti e necessità di osteosintesi chirurgiche.
Spesso viene riferito un grave trauma (incidente automobilistico, caduta da sci) che ha comportato subito un notevole gonfiore al ginocchio. Il quadro clinico è sovrapponibile a quello di una lesione di LCA ma solitamente non c’è instabilità.
Il quadro clinico della frattura del piatto tibiale è solitamente caratterizzato da dolore, gonfiore e limitazioni dell’articolarità.
La prima radiografia potrebbe essere anche negativa per cui con sospetto clinico potrebbe essere necessaria anche una TAC o RMN.
Se non ci sono indicazioni per il trattamento chirurgico, si dovrà rispettare un periodo più o meno lungo di immobilizzazione con tutore ad arto esteso (4-6 settimane) seguito da un percorso riabilitativo di almeno due mesi.
Riabilitazione dopo frattura del piatto tibiale
Terminato il periodo di riposo dopo immobilizzazione si inizia il programma riabilitativo in piscina per recuperare l’articolarità riducendo il carico applicato sull’articolazione.
Parallelamente si può iniziare in palestra un rinforzo muscolare dei muscoli del core, flessori e abduttori d’anca, addominali e una blanda attività del quadricipite.
Recuperata l’elasticità del ginocchio e diminuito il dolore e il gonfiore si può passare al recupero completo della forza con esercizi di rinforzo del quadricipite, flessori, polpaccio dapprima in catena cinetica aperta e successivamente con quella chiusa.
Se non ci sono stati episodi dolorosi e di flogosi si può passare alla fase dinamica con esercitazioni propriocettive e la propedeutica alla corsa.
L’artrosi del ginocchio (detta anche gonartrosi) è un processo molto frequente, prevalentemente degenerativo, caratterizzato dall’usura e dall’invecchiamento, ma si può manifestare anticipatamente se originata da lesioni traumatiche non trattate correttamente in età giovanile.
Contemporaneamente ai fenomeni degenerativi si realizzano dei tentativi di riparazione che riducono il dolore ma, accentuando la formazione di ossificazioni periarticolari, provocano limitazioni del movimento che possono essere molto invalidanti.
L’artrosi del ginocchio può insorgere su articolazioni sane o essere l’inevitabile conseguenza di alterazioni della meccanica articolare, esiti di malformazioni o traumi. È più frequente nelle donne, e nei pazienti in sovrappeso. Esistono poi particolari attività lavorative che dimostrano quanto la ripetizione di alcuni gesti, una postura viziata, il sovraccarico funzionale possano, a lungo andare, produrre danni articolari irreversibili.
I sintomi dell’artrosi del ginocchio (gonartrosi) sono in genere: dolore, gonfiore, deambulazione con zoppia, sensazione di impaccio dell’articolazione e rumori articolari detti scrosci.
La diagnosi è clinica e radiografica. Le radiografie evidenziano le alterazioni del profilo scheletrico ormai molto accentuate, mentre TAC e RMN rilevano le precoci irregolarità delle cartilagini.
L’intervento di protesi al ginocchio
L’intervento di protesi di ginocchio è consigliato nei casi più gravi di artrosi con un quadro radiografico molto compromesso.
In genere si consiglia l’esecuzione dell’intervento di protesi di ginocchio in pazienti oltre i 60 anni, sia in considerazione della durata delle protesi, sia perché con l’età la richiesta di prestazioni fisiche è minore.
La chirurgia protesica dovrebbe essere ritardata il più a lungo possibile nei pazienti che continuano a conservare una funzionalità sufficiente ed hanno un dolore tollerabile.
La riabilitazione dopo intervento di protesi di ginocchio ha come obiettivi il recupero dell’articolarità, della forza muscolare, della coordinazione, e dello schema del cammino, tanto più difficili da ottenere quanto più la situazione dell’arto prima dell’intervento era compromessa.
Riabilitazione per artrosi al ginocchio
A differenza di quanto si può comunemente pensare il paziente affetto da gonartrosi ottiene enormi vantaggi da un prolungato ciclo di riabilitazione effettuato in piscina e palestra. Il successo del trattamento dipende ovviamente dalla gravità della malattia, ma anche molto dalla serietà con cui il paziente lo intraprende.
Si deve subito chiarire con il paziente che la patologia di cui è affetto è cronica e ingravescente per cui non possiamo guarirlo, ma possiamo però insegnargli a conviverci senza dover troppo soffrire e senza dover rinunciare completamente alle attività fisiche.
Un trattamento riabilitativo efficace deve mirare a controllare i sintomi con terapie fisiche (laser, ultrasuoni, ionoforesi) e massaggi; ridurre il peso con adeguati consigli alimentari; potenziare la muscolatura con esercizi perché solo lavorando sugli ammortizzatori muscolari si può preservare l’articolazione (si eseguiranno dapprima esercizi cauti e blandi di tonificazione del quadricipite, dei flessori e del polpaccio sia in catena cinetica chiusa che aperta e successivamente si potrà iniziare l’attività aerobica).
La lesione del legamento crociato posteriore (LCP) è molto più rara di quella del legamento crociato anteriore (LCA).
La causa è spesso di tipo traumatico (impatto del ginocchio contro il cruscotto dell’auto durante un incidente stradale oppure in molti sport di contatto).
La lesione del legamento crociato posteriore può essere di I°, II° o III° grado, a seconda dell’entità del danno.
La sintomatologia immediata della rottura del legamento crociato posteriore (LCP) è piuttosto subdola. Il paziente avverte una sensazione di instabilità e di dolore posteriore, che persistono anche dopo la fase acuta.
Il trattamento conservativo della lesione del legamento crociato posteriore (LCP) rappresenta la prima soluzione. Inizialmente il percorso riabilitativo è simile a quello delle più comuni distorsioni del ginocchio ed in seguito vanno messe in atto strategie specifiche per la lesione del legamento crociato posteriore.
Il trattamento chirurgico è riservato solo in caso d’ instabilità anche dopo il trattamento conservativo.
Nella riabilitazione post-intervento occorre procedere con cautela nel recupero della flessione attiva, evitare contrazioni isolate dei flessori per i primi tre mesi e aspettare almeno un mese prima di concedere la deambulazione libera.
È invece importante da subito potenziare il quadricipite, prima con elettrostimolazioni poi con esercizi attivi.
Riabilitazione per rottura del legamento crociato posteriore (LCP)
All’inizio il trattamento riabilitativo è simile a quello delle più comuni distorsioni di ginocchio con l’obbiettivo di ridurre il gonfiore e recupere l’articolarità, prestando attenzione ad evitare movimenti di estensione massimale del ginocchio.
Una volta raggiunto l’obiettivo si può passare alla fase del recupero muscolare, in primo luogo dei muscoli che limitano l’iperestensione, quali flessori di ginocchio sia in modalità concentrica che eccentrica e tricipite surale, in particolar modo i gemelli; contestualmente verranno rinforzati il quadricipite, soprattutto con esercizi eccentrici, ai quali verranno abbinati esercizi propriocettivi e coordinativi.
Il lavoro in acqua consente un recupero precoce in termini di articolarità e schema del passo.
La rottura del menisco può verificarsi durante i movimenti combinati di flessione e rotazione tipici delle distorsioni traumatiche. Una lesione può verificarsi però anche in seguito ad un banale movimento o spontaneamente nelle persone più anziane a causa della degenerazione cartilaginea e della perdita di elasticità.
La sintomatologia della lesione meniscale varia da una fitta intensa e localizzata all’interlinea articolare ad un male sordo e poco definito che si riacutizza in certi movimenti.
Lesioni del menisco importanti possono provocare un vero e proprio blocco articolare che il più delle volte tende a risolversi con opportune manovre di basculamento in flesso-estensione.
Soltanto in caso di lesione particolarmente grave verrà proposto un intervento chirurgico al menisco.
Riabilitazione per rottura del menisco (laterale e mediale)
Il trattamento conservativo dopo rottura del menisco sta diventando il trattamento elettivo perché ormai è assodato che il menisco, soprattutto il mediale, partecipa alla stabilità del ginocchio quindi si tenta di preservarlo.
Il protocollo riabilitativo inizialmente mira a ridurre il dolore, il gonfiore e a recuperare l’articolarità, senza forzare la flessione soprattutto oltre i 90°. Nella fase iniziale è molto importante il trattamento all’interno della vasca riabilitativa, perché permette una riduzione del carico, un maggior rilassamento muscolare e un recupero precoce dell’articolarità.
Passato il processo infiammatorio iniziale si può passare alla fase del recupero muscolare del quadricipite, sia in modalità concentrica che eccentrica, dei flessori e del polpaccio, soprattutto in modalità eccentrica e del gluteo ; contestualmente si effettuano esercitazioni di equilibrio e propriocezione e di educazione al movimento.
La lussazione della rotula, soprattutto quella esterna è abbastanza frequente. Spesso è legata ad una predisposizione congenita di malallineamento per cui spesso si presentano episodi recidivanti; in altri casi è un fenomeno acuto legato all’entità dello stress traumatico.
Solitamente comporta il verificarsi frequente di un trauma distorsivo accompagnato dalla sensazione di “qualcosa fuori posto” e conseguente cedimento del ginocchio.
Generalmente la lussazione si riduce spontaneamente.
La sintomatologia della lussazione rotulea è caratterizzata da dolore, gonfiore, deficit di articolarità e zoppia.
Il trattamento conservativo della lussazione della rotula richiede l’utilizzo di una ginocchiera e il completamento di un ciclo di riabilitazione. La riabilitazione si basa soprattutto su tecniche di rinforzo muscolare specifico dei muscoli della coscia. Un adeguato tono muscolare è infatti fondamentale per stabilizzare la rotula e per evitare recidive.
Riabilitazione per lussazione della rotula
Nella lussazione acuta della rotula il gonfiore compare subito ed è molto forte, specialmente prima delle riduzione della lussazione.
La prima fase della riabilitazione è incentrata proprio sul controllo del dolore e riduzione del gonfiore attraverso l’utilizzo di terapie fisiche antiedemigene e massoterapia drenante e sul recupero della forza dei muscoli dell’anca, bacino e della caviglia. Tolto il tutore si può iniziare la mobilizzazione del ginocchio e velocemente si arriverà a una completa flessione di ginocchio e mobilità rotulea.
Fondamentale è il ruolo dell’idrochinesiterapia, che consente di recuperare precocemente la motilità del ginocchio senza dolore.
Recuperata l’articolarità si può passare alla fase del rinforzo del quadricipite, flessori e polpaccio, insistendo sul rinforzo della parte mediale (se la lussazione è esterna) soprattutto dei muscoli della zampa d’oca, vasto mediale e adduttori, dapprima in catena cinetica aperta e successivamente in chiusa.
Se non vi sono problemi si può passare al recupero dell’equilibrio e propriocezione attraverso percorsi su superfici instabili.
La frattura della rotula è spesso causata da un trauma diretto e nella maggior parte dei casi si tratta di fratture trasverse.
La sintomatologia è caratterizza da un’insorgenza rapida di gonfiore, dolore e limitazioni articolari. In caso di avvenuto intervento chirurgico, nel post-operatorio la mobilizzazione può essere effettuata precocemente durante la fisiokinesiterapia, già a partire dalla seconda settimana; il carico viene concesso dopo circa quattro settimane e normalmente l’intera rieducazione si protrae per alcuni mesi.
Riabilitazione per frattura della rotula
La frattura della rotula è seguita quasi sempre da un grosso versamento e da dolore; quindi la prima fase del trattamento è incentrata sul controllo del gonfiore attraverso terapie fisiche e massoterapia drenante; il recupero della completa articolarità inizierà fin dalle prime fasi, prestando attenzione ai limiti articolari imposti da eventuali mezzi di sintesi, quindi il rom deve essere estremamente ridotto; perciò in questo periodo è molto utile l’idrochinesiterapia per ridurre il carico applicato sull’arto e non sollecitare eccessivamente la parte traumatizzata.
Dopo il primo mese se la frattura evidenzia già i segni di una buona consolidazione è possibile iniziare il lavoro di recupero del trofismo muscolare del quadricipite, flessori, muscoli dell’anca e del bacino, dapprima in modalità isometrica, successivamente isotonica in catena cinetica chiusa e infine aperta evitando gli angoli che potrebbero scatenare dolore.
A frattura consolidata non ci sono grossi limiti nella funzionalità rotulea quindi dopo circa 2 mesi è possibile iniziare il rinforzo isocinetico, effettuare esercitazioni di propriocettiva e di equilibrio.
La distorsione al ginocchio è tra gli infortuni più frequenti nella traumatologia dello sport, soprattutto in alcune discipline quali il calcio, la pallacanestro, lo sci e la pallavolo.
Se in seguito ad un trauma con rotazione del ginocchio questo risulta gonfio e dolente, in attesa di una visita medica, è opportuno applicare il ghiaccio e proteggere l’articolazione dal carico usando le stampelle.
La valutazione del medico è di fondamentale importanza, anche se in fase acuta il dolore e le reazioni in difesa rendono difficili le manovre che normalmente si adottano per svelare una lesione legamentosa del ginocchio.
Per impostare un adeguato percorso riabilitativo, oltre ad un’accurata prima visita, il medico potrebbe prescrivere anche alcuni esami strumentali come la risonanza magnetica (RMN) o la TAC.
Riabilitazione per distorsione al ginocchio
Quando si subisce una distorsione al ginocchio, bisogna immediatamente applicare il protocollo RICE:
• Rest: tenere a “riposo” il ginocchio ed immobilizzarlo
• Ice: applicare del ghiaccio sull’articolazione per non più di 20-30 minuti
• Compression: Comprimere il ginocchio con una fasciatura elastica
• Elevation: Elevare l’articolazione mettendola in scarico
In questo modo si può riuscire tempestivamente a fermare il sanguinamento responsabile del gonfiore e del dolore locale. Dopo una prima fase di riposo e ghiaccio, il percorso riabilitativo della distorsione di ginocchio, non essendoci problemi articolari, prevede un lavoro di potenziamento muscolare del quadricipite, flessori, polpaccio che contribuiranno a stabilizzare maggiormente l’articolazione unito ad un lavoro propriocettivo e recupero della gestualità in campo riducendo il rischio di nuove distorsioni ed evitando recidive (prevenzione).
La sindrome femoro-rotulea è costituita da un insieme di alterazioni morfofunzionali che determinano l’insorgenza di dolore anteriore di ginocchio.
La rotula scorre all’interno di una gola ad essa congruente, scavata nella parte distale del femore; le superfici ossee scivolano l’una sull’altra grazie al reciproco rivestimento cartilagineo e sono guidate dalla tensione di alcuni gruppi muscolari, del tendine rotuleo e dei legamenti alari.
Basta un minimo disturbo, un’alterazione di forma o di funzione di una di queste componenti, perché insorga un aumento della pressione su una parte dell’articolazione femoro-rotulea con conseguente insorgenza di dolore o, peggio ancora, di instabilità fino alla vera e propria fuoriuscita della rotula dalla sua sede durante i dolorosissimi episodi di lussazione della rotula.
La diagnosi si avvale del supporto di radiografie, TAC o risonanza magnetica (RMN).
La maggior parte dei casi affetti da sindrome femoro-rotulea trae beneficio da un personalizzato programma riabilitativo, mentre la soluzione chirurgica viene riservata solo ai casi più gravi.
La riabilitazione della sindrome femoro-rotulea inizia in palestra, ma continua nella vita di tutti i giorni. Infatti, è proprio nella vita quotidiana che bisogna mettere in atto i piccoli accorgimenti per il mantenimento di una funzionalità completa.
L’unica vera indicazione al trattamento chirurgico è costituita da un importante instabilità rotulea, caratterizzate dalla lussazione abituale della rotula o dalla sua stabile malposizione.
RIALLINEAMENTO ROTULEO
Esistono vari tipi di soluzioni chirurgiche di riallineamento rotuleo. Quelle più frequentemente usate sono tre.
• Lateral release
Sezione del legamento alare esterno, effettuato artroscopicamente per medializzare la rotula. È un intervento la cui efficacia è dubbia, ma ha il vantaggio di una modestissima aggressività chirurgica con rapida ripresa.
In caso di lateral release puoi iniziare la riabilitazione dopo pochi giorni dall’intervento.
• Riallineamento distale
È l’intervento più utilizzato per le instabilità marcate caratterizzate da episodi recidivanti di lussazione rotulea. Consiste nella trasposizione del tendine rotuleo. Richiede un periodo di parziale immobilizzazione in tutore.
Nel riallineamento distale puoi iniziare precocemente la riabilitazione rimuovendo il tutore per la durata della seduta.
• Riallineamento prossimale
È impiegato negli adolescenti con instabilità rotulea grave per evitare di danneggiare il tessuto osseo immaturo. Consiste nell’avanzamento e plicatura del vasto mediale.
Il riallineamento prossimale richiede da quattro a sei settimane circa di immobilizzazione. Per consentire la tenuta delle suture è consigliabile invece iniziare la riabilitazione solo dopo il periodo di immobilizzazione.
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