Il linfedema consiste in un rallentamento della circolazione linfatica e venosa per cause di varia natura, che si possono riconoscere come primarie o secondarie. Le cause primarie sono rappresentate da anomalie congenite del sistema linfatico morfologiche o funzionali. Il linfedema è una patologia cronica e progressiva che può essere già presente alla nascita ma spesso può manifestarsi in età più o meno avanzata.
Talvolta si può riconoscere una causa scatenante quale una bruciatura cutanea, una puntura di insetto o altro. Si suppone che il sistema linfatico già compromesso dall’anomalia genetica non riesca a compensare l’edema causato dall’evento scatenante, vada in sovraccarico funzionale e manifesti ciò che era comunque già presente seppur non ancora manifesto. Cause secondarie per eccellenza sono gli interventi chirurgici con asportazione linfonodale. Il rischio di sviluppare un linfedema aumenta se viene associata radioterapia. Altre cause secondarie sono rappresentate da traumi di qualunque genere, infezioni o farmaci edemigeni, in questi casi l’edema è solitamente transitorio e il linfodrenaggio favorisce una guarigione maggiormente rapida. Dal momento che il sistema linfatico e quello venoso non possono anatomicamente essere considerati come completamente separati essendo per conformazione simili seppur non uguali, in caso di insufficienza venosa con edema degli arti, il linfodrenaggio, la pressoterapia e l’idrokinesiterapia potrebbero fornire un utile supporto terapeutico. Il lipedema è una malattia progressiva che si manifesta quasi esclusivamente nel sesso femminile. E’ caratterizzato da un accumulo atipico di tessuto adiposo. La donna con lipedema manifesta la tendenza a procurarsi lividi con facilità e percepisce come dei piccoli noduli sottocutanei. In fase avanzata tende a sentire dolore, calore e pesantezza agli arti. In questi casi il linfodrenaggio e la pressoterapia non sono ad oggi le terapie per eccellenza ma risultano attivi coadiuvanti nelle fasi iniziali e un efficace aiuto per il miglioramento della sintomatologia dolorosa. Il drenaggio linfatico manuale è una delle tecniche utilizzate in quella che viene definita Terapia Decongestiva Complessa ad oggi considerata il trattamento d’eccellenza per i problemi linfovenosi. Della terapia decongestiva complessa fanno parte tecniche quali:

• drenaggio linfatico manuale
• bendaggio multicomponente
• terapia elettromedicale coadiuvante
• cura della cute
• utilizzo di calze o bracciali elastici
• pressoterapia
• percorso vascolare
• esercizio fisico
• controllo del peso corporeo

Disturbi del comportamento

Nella categoria dei disturbi del comportamento confluisce una svariata gamma di condotte socialmente disfunzionali, quali aggressività, impulsività, oppositività e iperattività, che possono caratterizzare il comportamento dei bambini in età prescolare e scolare.
Tali problematicità comportamentali talvolta riguardano episodi isolati o delicate fasi evolutive temporanee; tuttavia, in alcuni casi, possono rappresentare il preludio a disturbi psicopatologici successivi.
Un bambino con disturbi del comportamento alla scuola dell’infanzia spesso viene definito iperattivo: fatica a rispettare le regole, a stare fermo, infastidisce, cambia continuamente attività e pare refrattario a qualunque rimprovero. Alla scuola primaria può diventare oppositivo, provocatorio o aggressivo verso i pari.
Quando le infrazioni alle regole sociali diventano frequenti è importante indagare gli aspetti psicologici e relazionali del bambino per prevenire l’insorgenza di problematiche maggiori. Si potrebbe trattare di un Disturbo di Attenzione/Iperattività (ADHD), di un Disturbo Oppositivo/Provocatorio (DOP) o di un Disturbo della Condotta (DC).
Le origini dei disturbi del comportamento possono essere di diversa natura. Per elaborare strategie di intervento efficaci, è necessaria un’attenta osservazione di questi comportamenti, così da comprenderne a fondo le cause e individuare le risorse più adatte da mettere in campo.

DISTURBO OPPOSITIVO-PROVOCATORIO
Il Disturbo Oppositivo Provocatorio ( DOP ) è un disturbo neuropsichiatrico caratterizzato da disturbo nel controllo delle emozioni e del comportamento. Il bambino non riesce a controllare le emozioni e i comportamenti. Si verifica solitamente intorno ai 6 anni di vita e può continuare fino all’adolescenza.
Si ha presenza di rabbia, irritabilità e di comportamenti vendicativi oppure oppositivi che durano per un periodo di almeno sei mesi. Spesso lo si diagnostica ai 6 anni di età. Tuttavia non sono rari i casi in cui comportamenti aggressivi, oppositivi e rabbiosi tipici del disturbo si manifestano prima di questa età. Non esiste una causa unica che spieghi il Disturbo Oppositivo Provocatorio , ma la letteratura scientifica attuale ci consente di parlare di fattori di rischio e di protezione che influenzano il presentarsi dei sintomi e loro sviluppo.
In particolare, fattori di rischio genetici (es. la familiarità per il disturbo) e ambientali (es. il bambino è inserito in un ambiente sociale, culturale e familiare che non si prende cura del bambino o che lo abusa, sia a livello fisico che psicologico) possono avere un ruolo importante nell’innescare tale Disturbo.
Altri fattori di rischio sono:
• Situazioni di instabilità familiare;
• Educazione particolarmente severa oppure troppo permissiva;
• Storia familiare di disturbo del comportamento;
• Altre patologie psichiatriche nei genitori.
Sono considerati, invece, fattori di protezione una buona qualità delle relazioni affettive con le figure che si occupano del bambino e un’educazione familiare costante e che trasmette fiducia.
I bambini e i ragazzi che presentano il Disturbo oppositivo provocatorio manifestano spesso:
• Rabbia o irritabilità;
• Comportamenti che mettono in discussione ciò che gli viene detto e provocano con atteggiamenti di sfida, in particolare verso persone che rappresentano l’autorità (genitori, insegnanti);
• Volontà di non rispettare le regole;
• Atteggiamento di rabbia verso qualcuno e vendicativo;
• Comportamenti di accusa degli altri per i propri comportamenti scorretti e volontà di irritare gli altri.

DISTURBO DELLA CONDOTTA
La caratteristica clinica principale del Disturbo della Condotta è la sistematica e persistente violazione dei diritti dell’altro e delle norme sociali, con conseguenze molto gravi sul piano del funzionamento scolastico e sociale.
La fenomenologia del disturbo si caratterizza principalmente per la presenza di aggressività a diversi livelli. I bambini e gli adolescenti con disturbo della condotta possono mostrare un comportamento prepotente, minaccioso o intimidatorio.
I comportamenti sintomatici più importanti assumono la forma di vere e proprie aggressioni perpetrate a danno di persone o animali.
• spesso fa il prepotente, minaccia o intimorisce gli altri;
• dà inizio ad episodi di bullismo;
• spesso dà inizio a colluttazioni fisiche;
• ha usato un’arma che può causare seri danni fisici ad altri (per es., un bastone, una barra, una bottiglia rotta, un coltello, una pistola);
• è stato fisicamente crudele con le persone;
• è stato fisicamente crudele con gli animali;
• ha rubato affrontando la vittima (per es.: aggressione, scippo, estorsione, rapina a mano armata);
• ha forzato qualcuno in attività sessuali.
• spesso mente per ottenere vantaggi o favori o per evitare obblighi (cioè, raggira gli altri).

Disturbo specifico della coordinazione motoria (disprassia)

Il disturbo specifico della coordinazione motoria (disprassia), è un disturbo neuroevolutivo che compromette la capacità di eseguire movimenti semplici e complessi con la massima efficacia e il minor dispendio di energia.
La diagnosi del disturbo della coordinazione motoria è stata inserita, nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, all’interno della macrocategoria dei “Disturbi del neurosviluppo”, ossia quelle condizioni di difficoltà specifiche che hanno un impatto sullo sviluppo globale del bambino; nel caso specifico della coordinazione motoria, questa impatta negativamente sull’apprendimento scolastico, altera l’autonomia e provoca disagi nelle relazioni interpersonali familiari e sociali.
Il più grande problema del disturbo specifico della coordinazione motoria (disprassia) è la mancanza di consapevolezza; si tende a pensare che il bambino sia semplicemente “impacciato” e che questo non comporti lo sviluppo di situazioni peggiori con il passare del tempo.
In realtà questo disturbo interessa circa il 5-6% della popolazione infantile compresa tra i 5 e gli 11 anni (i maschi più delle femmine), e non migliora con la crescita, anzi, se non trattato immediatamente può perdurare, anche oltre l’età evolutiva, nel 50-70% dei casi.
Non tutti i bambini che soffrono di disturbo della coordinazione motoria hanno le stesse caratteristiche, ma, cercando degli elementi in comune, questi sono: l’essere impacciati; la scoordinazione; la lentezza dei movimenti.
Per loro è difficoltoso anche ideare il movimento e di conseguenza, già durante la scuola dell’infanzia, non sono attratti dall’esplorazione del corpo, si muovono poco e si rifiutano di disegnare. Tali difficoltà possono anche sfociare in: scarsa autostima; oppressione del movimento per paura di sbagliare e difficoltà di apprendimento e di scrittura, che di solito insorge con la crescita.
La differenza di sintomi è evidente soprattutto tra bambini di età diversa:
• nei bambini più piccoli si nota goffaggine e ritardo nel raggiungimento delle tappe fondamentali dello sviluppo motorio;
• negli adolescenti si notano difficoltà più complesse come incapacità di assemblare puzzle, giocare a palla o avere una buona calligrafia.
Nel corso dello sviluppo del bambino, inoltre, si notano i seguenti punti:
• ritardo nell’acquisizione delle principali tappe di sviluppo motorio, come deambulazione autonoma o gattonamento:
• scarsa fluidità dei movimenti nello spazio;
• difficoltà dell’acquisizione, pianificazione ed esecuzione autonoma di sequenze motorie fini;
• scarsa abilità nei compiti visuo-percettivo-motori.
Tutto ciò, con la crescita, determina:
• difficoltà di eseguire azioni autonome personali e sociali come lavarsi le mani, vestirsi, allacciare le scarpe e altri;
• insuccesso in attività sportive;
• scarsi risultati a scuola, soprattutto in materie di scrittura e logico-matematiche.
Il disturbo della coordinazione motoria, se identificato, diagnosticato e trattato nei giusti tempi, ha buone possibilità di miglioramento; miglioramento che si verifica sia a proposito degli schemi di movimento, che in termini di consapevolezza, integrazione corporea e autostima.

Disturbo da deficit dell'attenzione e iperattività

Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD) è un disturbo dello sviluppo del sistema nervoso centrale (neurosviluppo) caratterizzato da difficoltà di attenzione, irrequietezza e problemi nel controllo degli impulsi.
Queste caratteristiche del comportamento compromettono, con differenti livelli di gravità, la qualità di vita del bambino nei vari ambienti in cui si trova a trascorrere la propria giornata. Si riscontra prima dei 12 anni.
Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività è uno dei più comuni disordini dell’età evolutiva, con una frequenza del 3-4% dei bambini e un rapporto maschi-femmine 3-4:1.
È caratterizzato da vari livelli di:
1. Iperattività, cioè attività motoria eccessiva, persistente e continuativa;
2. Deficit di attenzione (facile distraibilità, tempi di attenzione ridotti, difficoltà a seguire le istruzioni);
3. Impulsività nei comportamenti e verbale (iperverbosità, difficoltà a rispettare il proprio turno, interrompe frequentemente le attività altrui).
Sebbene i bambini siano tutti molto attivi, stentano a mantenere a lungo l’attenzione e sono spesso impulsivi; i bambini con questo disturbo hanno livelli di iperattività, di deficit di attenzione e di impulsività che non sono comparabili con quelli dei bambini della stessa età.
Le caratteristiche elencate, tendenzialmente, si manifestano prima dei 12 anni, con maggiore frequenza in età prescolare (3-6 anni) dell’iperattività motoria caratterizzata da:
• Frequenti crisi di rabbia;
• Gioco ridotto e semplificato;
• Litigiosità;
• Atteggiamenti provocatori;
• Assenza di paura e di senso del pericolo;
• Incidenti frequenti;
• Comportamenti aggressivi;
• Disturbi del sonno.
Di solito in età scolare (6-12 anni) i bambini con ADHD mostrano un’apparente accentuazione dell’irrequietezza, con disattenzione e impulsività, frequenti difficoltà scolastiche, bassa autostima e rifiuto da parte dei coetanei.
Le problematiche descritte sono ben differenti dalla comune vivacità e curiosità dei bambini; anzi, la frequenza e la pervasività di questi sintomi compromettono in modo patologico il sano e pieno sviluppo psicomotorio del bambino.
Per comprendere le differenze tra normalità e ADHD occorre l’intervento di un’equipe esperta che si occupi di disturbi del neurosviluppo.

Disabilità intellettive

Le disabilità intellettive sono alterazioni dello sviluppo sviluppo cognitivo, motorio ed emotivo che si manifestano come sindromi globali, legate al deficit di sviluppo delle funzioni astrattive della conoscenza, sociali e di adattamento, che originano in età evolutiva. Si diagnosticano generalmente intorno ai 4 anni d’età attraverso specifici test psicometrici.
Le disabilità intellettive si manifestano entro i primi anni di vita e si diagnosticano generalmente intorno ai 4 anni quando sono disponibili misure standardizzate specifiche per identificare e quantificare il grado di disabilità intellettiva e il grado di funzionamento adattivo. Prima di questa età, in presenza di un ritardo delle acquisizioni, anche nel primo anno di vita, è possibile diagnosticare un ritardo dello sviluppo psicomotorio, per la cui diagnosi vengono utilizzate scale specifiche di sviluppo.
Una diagnosi precoce, effettuata tramite gli strumenti sopradescritti, consente d’identificare precocemente terapie appropriate e interventi mirati. I processi di plasticità cerebrale hanno un’efficacia massima nei primi cinque anni di vita pertanto gli obiettivi raggiungibili dal paziente con il trattamento dipendono dall’età del soggetto al momento della diagnosi, dall’epoca di avvio dei trattamenti e dalla gravità della disabilità.

Sindromi genetiche, qualche esempio:
SINDROME DI DOWN: è causata da una copia in eccesso del cromosoma 21. I bambini affetti da questa sindrome presentano un ritardo dello sviluppo fisico e mentale con invalidità intellettuale, caratteristiche specifiche del cranio e del volto e spesso bassa statura.
LA SINDROME DELL’X FRAGILE: anche conosciuta come sindrome di Martin-Bell, è una rara condizione genetica ereditaria, caratterizzata da ritardo globale dello sviluppo (ritardo neuropsicomotorio9, disabilità intellettiva più o meno grave, disturbi dell’apprendimento e della capacità di relazionarsi con gli altri.
SINDROME DI DI GEORGE: è causata da un difetto dello sviluppo della terza, della quarta tasca branchiale e del quarto arco branchiale. E’ caratterizzata da anomalie del cuore, del timo, delle paratiroidi e da dismorfismi specifici del volto. E’ congenita quindi presente già alla nascita, può comportare tra i sintomi anche problemi di apprendimento e comportamentali, ritardo nel camminare e parlare, deficit di attenzione con iperattività (ADHD), problemi di linguaggio e udito, problemi alla bocca e nell’alimentazione, oltre che problemi cardiaci e immunitari.
SINDROME DI WILLIAMS: è una malattia genetica multi sistemica rara dello sviluppo neurologico, caratterizzata da facies caratteristica, cardiopatie, anomalie cognitive, dello sviluppo e del tessuto connettivo.

Disturbi aspecifici dell'apprendimento

I disturbi aspecifici dell’apprendimento (o non Specifici) riguardano difficoltà di lettura, scrittura e calcolo collegate a capacità cognitive al di sotto della media.
I disturbi aspecifici dell’apprendimento possono anche essere conseguenza di malattie di vario tipo:
• Sensoriali (come sordità o forti difficoltà visive);
• Neurologiche (come l’epilessia);
• Genetiche (come la sindrome di Down o di Williams);
• Organiche in genere (come l’ipotiroidismo);
• Psicologiche (come disturbi psicopatologici primari).
In queste situazioni le difficoltà del bambino sono spesso generalizzate, quindi non solo nelle competenze “di base” cioè nella lettura, nella scrittura e nella matematica, ma anche nei processi logici.
Spesso le capacità cognitive del bambino sono inferiori alla media prevista per la sua età, anche se non necessariamente collocabili nella cosiddetta “fascia inferiore” della media o “ai limiti” del ritardo cognitivo.
Anche nel ritardo cognitivo sono presenti difficoltà di apprendimento: sono però più conseguenti al ritardo stesso, anche se vi è una grande variabiltà tra una situazione e l’altra, con differenti profili neuropsicologici.

Disturbo del linguaggio

Il Disturbo del Linguaggio fa parte dei disturbi del neurosviluppo ed è caratterizzato da un ritardo in uno o più ambiti dello sviluppo del linguaggio, in assenza di problemi cognitivi, sensoriali, motori, affettivi e di importanti carenze socio-ambientali.
Nonostante lo sviluppo linguistico abbia una grande variabilità nei primi 36 mesi di vita, normalmente intorno ai 12 mesi compaiono le prime parole e a 24 mesi il bambino ha già un vocabolario di circa 100 parole e forma le prime frasi (combinazioni di due parole es. “mamma acqua” per “mamma voglio l’acqua”, spesso associate a un gesto indicativo o simbolico).
Intorno ai 30 mesi di età avviene la vera esplosione linguistica, in particolare del vocabolario: il numero di parole aumenta in breve tempo e il bambino inizia a produrre frasi di tre o più parole che via via diventano frasi complesse.
L’età di tre anni costituisce una sorta di spartiacque tra i bambini cosiddetti “parlatori tardivi” e i bambini con un probabile disturbo del linguaggio. Nel 5-7% della popolazione il disturbo persiste dopo i 3 anni e, in questi casi, è raro che prima dell’età scolare si verifichi un recupero spontaneo delle abilità linguistiche attese per l’età cronologica. Per questo, anche se la diagnosi può essere fatta ai 4 anni, è bene che la presa in carico sia tempestiva, in modo particolare se si segnalano difficoltà comunicative e di comprensione. La presenza di una produzione di parole ancora non adeguata secondo i parametri dello sviluppo tipico dovrà necessariamente essere valutata da un professionista.
Bisogna considerare i seguenti campanelli d’allarme:
12 mesi: mancata comparsa delle prime parole;
18 mesi: vocabolario inferiore a 20 parole;
24 mesi: vocabolario inferiore a 50 parole;
24-30 mesi: assenza o ridotta presenza di gioco simbolico;
24-30 mesi: ritardo nella comprensione di ordini non contestuali e assenza di combinazioni di due parole;
dopo i 30 mesi: assenza di frasi anche semplificate.

Il DSM 5 ha provveduto ad aggiornare la classificazione dei disturbi del linguaggio rispetto alla sua edizione precedente:
Disturbo del linguaggio: viene diagnosticato come tale un disturbo dell’espressione del linguaggio e della ricezione del linguaggio;
Disturbo fonetico-fonologico: in precedenza definito disturbo della fonazione; il disturbo fonetico-fonologico rientra nei “disturbi della comunicazione” e descrive in particolar modo una difficoltà relativa alla produzione di alcuni fonemi.
Durante l’eloquio, infatti possono essere presenti inversioni, omissioni, sostituzioni, che talvolta interferiscono sull’intellegibilità e sulla comunicazione verbale.
Oltre ad essere evidente il problema articolatorio, è riscontrabile anche un’alterazione nella discriminazione uditiva dei suoni (tratti distintivi) e nella corretta sequenza dei fonemi all’interno della parola (la struttura fonotattica). La ridotta capacità comunicativa può ripercuotersi nelle interazioni sociali e scolastiche.
Disturbo della fluenza e balbuzie con esordio nell’infanzia.

Per quest’ultimo disturbo il DSM 5 propone i seguenti criteri diagnostici:
• Alterazioni della normale fluenza e della cadenza dell’eloquio, inappropriate per età e abilità linguistiche, che persistono nel tempo, sono caratterizzate dal frequente ripetersi di elementi specifici e non sono causate da disturbi neurologici o altre condizioni medico-psichiatriche;
• Ansia nella comunicazione o limitazioni della sua efficacia, della partecipazione sociale e delle performance scolastiche o professionali;
• Esordio nel periodo precoce dello sviluppo.

Questa alterazione funzionale può coinvolgere il ritmo, la velocità e la fluidità dell’eloquio: la persona che balbetta ha chiaramente in mente ciò che vuole dire, ma non riesce ad esprimerlo in maniera fluida. La balbuzie si manifesta con segni caratteristici, quali: la frequente ripetizione di suoni e sillabe, specie quelle posizionate all’inizio della parola; il prolungamento dei suoni; l’interruzione delle parole; blocchi nel parlato, udibili o silenti; pause silenziose che accompagnano il tentativo di parlare; parole emesse con eccessiva tensione e rigidità fisica.

Disturbi dello spettro autistico

I disturbi dello spettro autistico sono un insieme di diverse alterazioni del neurosviluppo legate a un’anomala maturazione cerebrale che inizia già in epoca fetale, molto prima della nascita del bambino. Il disturbo si presenta in modo molto variabile da caso a caso, ma in generale è caratterizzato dalla compromissione della comunicazione e dell’interazione sociale e dalla presenza di interessi e comportamenti ristretti e ripetitivi.
Oggi si stima che almeno un bambino su 100 abbia un disturbo dello spettro autistico. I disturbi dello spettro autistico si manifestano in genere nei primi anni di vita del bambino. Generalmente i genitori sono i primi a rendersi conto delle difficoltà del loro bambino già dai 18 mesi. In casi molto lievi questo può accadere anche dopo i 24 mesi. In alcuni bambini i genitori riportano uno sviluppo apparentemente adeguato fino ai 18 mesi, seguito poi da un arresto e da una regressione di competenze già acquisite.
I primi campanelli di allarme solitamente sono:
Problemi di comunicazione e di socializzazione. I bambini con disturbi dello spettro autistico manifestano anzitutto difficoltà nella comunicazione non verbale: non guardano negli occhi ed evitano lo sguardo, sembrano ignorare le espressioni facciali di mamma e papà e non sembrano in grado di utilizzare la mimica facciale e i gesti per comunicare, hanno scarso interesse per gli altri e per le loro attività, scarso interesse per gli altri bambini, etc.;
Presenza di comportamenti stereotipati come un interesse eccessivo per alcuni oggetti o parti di oggetti, un eccessivo attaccamento a comportamenti di routine, la presenza di gesti sempre uguali e ripetuti delle mani e del corpo.

Lesioni cartilaginee della caviglia

Le lesioni cartilaginee della caviglia si verificano in seguito a traumi distorsivi e sono spesso causa di dolore persistente con conseguente limitazione funzionale. La sede più frequente di lesione è il compartimento mediale.
Probabilmente in passato hai subito numerosi traumi distorsivi che hanno determinato la persistenza di dolore, limitazioni dell’articolarità, gonfiore e limitazione dell’attività sportiva.
Le radiografie di pronto soccorso sono sempre indicative.
La RMN è l’esame elettivo, per constatare fratture osteocondrali con spostamento del frammento.
Il trattamento delle lesioni cartilaginee della caviglia differisce a seconda dell’estensione della lesione. Una volta escluso che la lesione è del 4° livello (lesione con spostamento del frammento dove l’approccio è solo chirurgico), si può procedere con un trattamento riabilitativo.

Fascite plantare

La fascite plantare è una patologia che riguarda la struttura di tessuto connettivo fibroso che origina dalla tuberosità calcaneare e si inserisce sulle teste metatarsali.
Durante la fase di appoggio nel passo e nella corsa la fascia plantare viene stirata in modo significativo e il punto maggiormente sollecitato è la sua inserzione sul calcagno.
Qui può prodursi nel tempo una calcificazione allungata che segue il decorso della fascia e che radiologicamente produce il tipico sperone calcaneare. La presenza dello sperone non è però necessariamente legata alla sintomatologia: ci sono speroni non dolorosi (riscontrati per caso in una radiografia del piede eseguita per altri motivi) e fasciti plantari molto dolorose ma che radiologicamente non hanno prodotto nessun sperone.
La fascite plantare è una patologia molto comune tra gli sportivi che praticano corsa, ballo, tennis, basket e magari hanno sbagliato la progressione dei carichi di lavoro durante l’allenamento.
Si presenta spesso anche tra gli anziani che sono passati da scarpe con un rialzo a scarpe basse, tra chi per lavoro è costretto ad usare scarpe antiinfortunistica, nei pazienti in sovrappeso e tra coloro che hanno un’alterazione anatomica a livello dell’arco plantare (piede cavo rigido, piede piatto).
In linea di massima questa patologia tende a cronicizzare perché viene spesso trascurata dai pazienti per molti mesi e questo contribuisce a rallentarne la guarigione.
La sintomatologia della fascite plantare è caratterizzata da dolore acuto al mattino e nei movimenti a freddo; il dolore tende a migliorare dopo i primi passi e a riacutizzarsi durante la giornata. Può essere presente un gonfiore circoscritto alla zona dolente. Non di rado i muscoli del polpaccio presentano un deficit di forza e di estensibilità.
Per la diagnosi è utile eseguire una radiografia ed eventualmente un’ecografia.
La terapia immediata prevede il riposo sportivo e l’eliminazione dei fattori predisponenti (uso di calzature idonee e calo ponderale). Potrà essere utile l’uso di plantari per correggere eventuali anomalie a carico dell’arco plantare. Spesso la terapia ad onde d’urto si rivela molto efficace nel risolvere il quadro infiammatorio.

Rottura del tendine d’achille

Il tendine d’Achille è il tendine più voluminoso e robusto del nostro organismo.
Sollecitazioni ripetitive negli atleti, o il semplice avanzare dell’età nei sedentari, possono portare ad alterazioni della struttura tendinea fino a rotture parziali o complete del tendine stesso.
La rottura del tendine d’Achille è la conseguenza di una tendinite cronica spesso non riconosciuta o sottovalutata. Colpisce soprattutto i saltatori, i corridori, i calciatori ed i tennisti, realizzandosi come conseguenza di una brusca contrazione muscolare.
La sintomatologia è caratterizzata da un dolore acuto e improvviso nella regione posteriore della gamba, spesso associato a un rumore di “schiocco”. Probabilmente hai avuto la sensazione di aver ricevuto una frustata o un calcio da un avversario. La rottura del tendine d’Achille genera una impotenza funzionale immediata tale da impedire la deambulazione.
La diagnosi si basa essenzialmente sul quadro clinico: a volte è presente un vallo ben evidente in corrispondenza della rottura. Il sospetto diagnostico viene spesso confermato da un esame ecografico che evidenzia molto bene l’interruzione delle fibre tendinee e permette di distinguere tra le rotture totali e quelle subtotali.
Per trattare la rottura del tendine d’Achille è indispensabile intervenire chirurgicamente.

Tenorrafia achillea
Esistono numerosi tipi di sutura del tendine d’Achille. Questo tipo di intervento viene detto tenorrafia achillea e viene oggi eseguita con tecniche che prevedono piccolissime incisioni, tali da ovviare ai disturbi di cicatrizzazione legati alle incisioni molto lunghe, ed in grado di ridurre i tempi di recupero.
L’intervento di tenorrafia achillea viene di solito seguito dall’immobilizzazione con tutore in equinismo per 2-3 settimane e un tutore in flessione neutra per 4 settimane con carico permesso dopo la 4° settimana dall’intervento chirurgico.
Le terapie riabilitative cominciano in genere dalla 4°-5° settimana dall’intervento e si svolgono inizialmente alternando piscina e palestra.

Riabilitazione per rottura del tendine d’Achille
Dopo essere stato sottoposto ad un intervento di tenorrafia il paziente che ha subito la rottura totale del tendine d’Achille si presenta con un tutore bloccato in equinismo a 20° dopo trenta giorni. Dopo il primo mese è possibile effettuare una visita medica accurata e iniziare il programma riabilitativo.
Il primo obiettivo è quello di ridurre la flogosi e il dolore con massoterapia drenante, ultrasuoni ad immersione, laser e di recuperare gradualmente l’articolarità e la corretta deambulazione: per il mese successivo è possibile concedere il carico ma solo con tutore tipo walker; in questa fase sono utili esercitazioni in piscina di mobilizzazione passiva e attiva e allungamento della catena posteriore per permettere un più rapido recupero della mobilità e una più sicura ripresa dello schema del passo.
Ottenuto il carico completo dal chirurgo è possibile progredire nel programma terapeutico in palestra con esercizi di rinforzo concentrico ed eccentrico progressivo dei gemelli, del soleo, dei tibiali, peronei, intrinseci del piede, quadricipite sia a corpo libero che con attrezzi ed esercitazioni aerobiche su bici, ellittica, tapis roullant, per il recupero metabolico; è la fase più lunga ed è importante gestire bene i periodi di carico e scarico di forza per permettere di arrivare al test isocinetico con una differenza di forza tra i due arti < del 20%.
Superato il test, l’ultimo obiettivo è quello del recupero del gesto atletico in campo dove vengono effettuate esercitazioni propedeutiche al recupero della corsa rettilinea, in curva, balzi, percorsi e fondamentali tecnici dello sport praticato.
È fondamentale prima della dimissione aver recuperato il 100% di forza al test isocinetico e aver recuperato l’attività metabolica ottimale misurata con un test di soglia.

Tendinopatia achillea

Sotto il nome generico di tendinopatia achillea rientrano una serie di patologie di tipo infiammatorio e degenerativo catalogate a seconda dei casi come tendiniti, tendinosi e tendiniti inserzionali.
Possono essere la conseguenza di un evento acuto scatenato da un sovraccarico funzionale o da microtraumi ripetuti spesso favoriti da calzature non idonee, terreni duri o riscaldamento inappropriato prima dell’attività fisica.
Inizialmente i sintomi tendono a peggiorare a riposo (i primi passi al risveglio sono particolarmente fastidiosi) e migliorano “a caldo”. In seguito il dolore non scompare con l’attività ma la limita fino a renderla impossibile. L’errata sollecitazione della porzione distale del tendine può nel tempo portare ad una borsite complicando ulteriormente il quadro clinico.
La diagnosi della tendinopatia achillea si basa sul quadro clinico caratterizzato da dolore, gonfiore, arrossamento della cute, e viene confermata dall’ecografia che chiarisce sede, grado ed estensione della lesione.
Il trattamento di una tendinopatia è sempre molto delicato e le possibilità di successo dipendono dalla gravità del quadro patologico e dal tempo di insorgenza della sintomatologia. È comunque fondamentale impostare precocemente il trattamento riabilitativo.

Frattura del metatarso

La fratture del metatarso più frequente è quella che riguarda il IVº e il Vº metatarso e nella maggioranza dei casi non viene operata.
Il quinto metatarso è l’osso più lungo della parte esterna del piede. La frattura del quinto metatarso del piede può essere di due tipi:
• frattura da avulsione: una porzione di osso viene strappata via da un tendine o da un legamento; solitamente si manifesta in seguito a una distorsione della caviglia, dopo una ricaduta da un salto o dopo un infortunio improvviso (incidenti motociclistici e automobilistici);
• frattura da stress: colpisce soprattutto gli anziani e gli sportivi all’inizio della stagione sportiva; è dovuta a un utilizzo eccessivo o ripetitivo dell’osso metatarsale.
La frattura meta si presenta con dolore acuto nella parte esterna del piede, rigidità, gonfiore, formazione di ematomi, difficoltà di deambulazione.
Per la diagnosi corretta è indispensabile effettuare una radiografia del piede.
Nel caso della frattura del metatarso è possibile optare per un trattamento non chirurgico oppure per un intervento chirurgico.
Il trattamento non chirurgico è previsto quando la frattura è localizzata fra l’unione della parte extra-articolare e intra-articolare della protuberanza del quinto metatarso; oppure presso l’articolazione prossimale del quinto metatarso.
Di solito è necessaria l’immobilizzazione dell’articolazione con un gesso per almeno 30 giorni, dopo i quali si apprezza frequentemente una notevole ipotrofia dei muscoli della gamba.
Il trattamento chirurgico invece prevede un innesto osseo o l’inserimento di una vite intramidollare (osteosintesi) ed è consigliato a tutti gli sportivi e nel caso in cui la frattura si manifesta presso l’articolazione distale del quinto metatarso oppure nella parte centrale del quinto metatarso.
Il periodo riabilitativo in seguito alla frattura metatarsale inizia con un carico sfiorante e progressivo sino all’abbandono completo delle stampelle.
È indispensabile recuperare articolarità, fluidità e propriocezione. Viene impostato un programma di rinforzo muscolare di tutto l’arto inferiore, fino alla riabilitazione sul campo sport specifica.
Nel caso di osteosintesi, il percorso riabilitativo non cambia nella sostanza. Sarà anzi possibile ipotizzare una riduzione dei tempi riabilitativi nella concessione del carico.

Distorsione della caviglia

Le distorsione della caviglia fa parte dell’esperienza di molte persone anche non sportive, ma rappresentano indubbiamente l’evento accidentale più frequente nella carriera sportiva di un atleta.
Il più frequente meccanismo di distorsione della caviglia è in inversione (rotazione interna della pianta del piede) ma può essere anche causato da una eversione (rotazione esterna della pianta del piede) e a volte i due meccanismi possono coesistere.
Il legamento maggiormente interessato nel meccanismo lesivo in inversione è il peroneo astragalico anteriore (PAA) seguito dal peroneo-calcaneare (PC) e dal peroneo astragalico posteriore (PAP), mentre le lesioni in eversione determinano una lesione a carico del legamento deltoideo.
Nel caso di distorsione della caviglia, il gonfiore è in genere immediato e il dolore può essere molto intenso; i movimenti sono molto limitati dal gonfiore e la stabilità della caviglia è compromessa nei gradi più avanzati.
In un’articolazione molto gonfia la radiografia viene quasi sempre effettuata per escludere che vi siano fratture. L’ecografia effettuata a distanza di alcuni giorni consente di evidenziare la lesione delle strutture legamentose tipiche della distorsione. In casi selezionati l’esame può essere completato con una RMN o TC.
Il trattamento riabilitativo delle lesioni traumatiche acute è fondamentale per il ripristino della stabilità della caviglia e della sua funzionalità dinamica. Alla fine del ciclo riabilitativo è poi importante che il paziente esegua un programma di mantenimento allo scopo di evitare o minimizzare le recidive.

Riabilitazione per distorsione della caviglia
La distorsione della caviglia, nella maggior parte dei casi avviene in pazienti che praticano attività sportiva, ma si può presentare anche nella vita quotidiana. Frequentemente il trauma è in inversione, ma può anche presentarsi in eversione.
Nella maggior parte dei casi il paziente dopo il trauma è già stato al pronto soccorso e quindi già in possesso di una RX per escludere fratture e ha un taping o tutore per immobilizzare l’articolazione; si presenta nel nostro centro già il giorno dopo il trauma per una visita e un’ecografia per determinare il grado della distorsione (in base al numero di lesioni legamentose). Solo con una diagnosi accurata è possibile determinare il programma terapeutico adeguato.
Il primo obiettivo del protocollo è la riduzione del gonfiore e del dolore attraverso l’utilizzo di ultrasuoni ad immersione, laser e massaggio drenante e ghiaccio; in questa fase si parla di protocollo RICE , acronimo che definisce le procedure da seguire, Rest (riposo), Ice (ghiaccio), Compression (compressione), Elevation (arto in scarico).
Una volta ridotto il gonfiore si deve recuperare l’articolarità della caviglia attraverso un pompage soft della tibio-tarsica, mobilizzazioni attive e passive, stretching specifico dei muscoli della gamba e massaggio dei muscoli del piede con l’obiettivo di recuperare la deambulazione corretta.
Contestualmente si può iniziare la parte più importante del protocollo terapeutico, quella del recupero della forza e della propriocezione, attraverso esercizi di tonificazione dei muscoli che sottendono alla caviglia, come il polpaccio, tibiale anteriore e posteriore, peronei, intrinseci del piede, muscoli plantari.
In questa fase è importante anche il rinforzo dei muscoli della core e del medio gluteo (importante per stabilizzare lateralmente l’arto).
Successivamente si può procedere ad esercitazioni più complesse come tavolette propriocettive, percorsi, balzi su tappeto elastico, andature talloni-punte su bordo interno/esterno.
L’ultima fase del programma terapeutico prevede la rieducazione sul campo sportivo con andature specifiche dello sport di provenienza, corsa in curva, percorsi, balzi e fondamentali specifici e un programma di prevenzione delle recidive.

Frattura del malleolo

Le frattura del malleolo puo’ verificarsi per traumi sportivi, incidenti stradali, domestici o sul lavoro. Nella maggior parte dei casi è necessario un periodo di 30–40 giorni d’immobilizzazione con gesso o tutore.
Conseguentemente all’immobilizzazione la caviglia sarà rigida e sarà evidente una marcata e generalizzata ipotrofia muscolare.
Quando il medico ti visiterà, è fondamentale che abbia a disposizione tutte le radiografie effettuate. In particolare, è decisiva quella di controllo dopo la rimozione del gesso: solo se la frattura è ben consolidata e i malleoli sono in asse avremo un buon esito riabilitativo.
Per il pieno recupero la rieducazione dura a lungo e i tempi per consentire il carico vanno condivisi con l’ortopedico. Vengono utilizzate terapie fisiche e farmacologiche per ridurre dolore e gonfiore, terapie manuali e linfodrenaggio, esercizi propriocettivi precoci introdotti con il progredire del carico ed esercizi di rinforzo della muscolatura della caviglia. Precocemente in alternanza alla palestra per favorire il recupero della schema corretto del passo è indispensabile la rieducazione in acqua.

Intervento per frattura del malleolo
La frattura del malleolo è tra le più comuni fratture dell’arto inferiore: interessa il malleolo interno e il malleolo esterno, e spesso è associata a lesioni legamentose della caviglia.
La frattura che coinvolge i due malleoli e la porzione posteriore della tibia è definita frattura trimalleolare.
A seconda della diversa tipologia di frattura vengono effettuati interventi chirurgici diversi, con l’utilizzo di svariati mezzi di sintesi, o con fissatore esterno.
Il percorso riabilitativo può iniziare dopo un periodo di gesso, oppure con il fissatore. È importante tenere a mente che si tratta di una rieducazione lunga ed impegnativa, che richiede mediamente 4 mesi per il recupero di una funzionalità discreta ed 8 mesi per il recupero dell’attività sportiva agonistica.
In genere dopo un anno dall’intervento viene consigliata la rimozione dei mezzi di sintesi.
Il trattamento riabilitativo dopo la rimozione dei mezzi di sintesi viene effettuato per almeno un mese.